La questione meridionale è stata oggetto di discussioni sin dalla metà del diciottesimo secolo quando i riformisti dell’illuminismo napoletano, Antonio Genovesi, Gaetano Filiangieri e Ferdinando Galiani, sostenevano che una nuova società meridionale dovesse sostituirsi al regime feudale che si stava disintegrando. Il meridione è stato ampiamente studiato da G. Fortunato, da F.S. Nitti, da Salvemini e da tanti altri. Gramsci, più di ogni altro, ha elaborato un programma di coordinamento e direzione di tutte le forze rivoluzionarie per superare il divario tra il Nord ed il Sud e coordinare gli interessi comuni in una nuova coalizione sociale. Nonostante tutti questi studi il divario esiste ancora. Pare che la questione meridionale sia un vecchio problema “un vino vecchio”in “bottiglie nuove”.
Da decenni il meridione è stato oggetto d’interventi del governo. Esiste purtroppo un contrasto tra la massa ingente d’interventi effettuati e gli effetti che questi interventi hanno avuto sull’occupazione complessiva del meridione. La disoccupazione era alta nel passato e lo è ancora alta oggi. I tanti interventi speciali e straordinari nell’agricoltura e nelle opere pubbliche non sono riusciti a ridurre questo divario. Tanti studi hanno descritto il meridione come un’area d’industrializzazione senza sviluppo o di sviluppo senza occupazione. Ancora oggi, dopo tanti interventi i vari rapporti del Censis, del’Istat e dello Svimez documentano l’elevata disoccupazione, i redditi bassi e le condizioni di vita precaria del meridione. I nuovi programmi governativi si concentrano sull’assistenzialismo che serve solo a raccogliere voti senza, però, ridurre il divario.
Purtroppo l’assistenzialismo, il più delle volte, crea nell’assistito un complesso d’inferiorità, facendolo sentire un fallito incapace di autosufficienza senza l’assistenza governativa. L’assistenza crea in lui una certa alienazione che indebolisce la sua voglia di riscatto per recuperare un senso d’indipendenza e dignità tramite un lavoro. Credo che nell’analizzare la secolare questione meridionale non bisogna prestare attenzione solo alla politica economica, ma anche all’aspetto culturale. Alcuni studiosi americani infatti hanno studiato il meridione prestando attenzione alla cultura, ai codici di comportamenti nelle comunità meridionali.
Negli anni Cinquanta Edward Banfield, sociologo americano, ha condotto uno studio pioniere in Basilicata. Nell’analizzare l’interazione sociale di Chiaromonte, una piccole comunità lucana, ha messo in rilievo una carenza di istituzioni capaci di creare un’azione collettiva; in questa comunità il ruolo della famiglia era centrale, e generava, secondo lui, un familismo amorale. Per Banflied l’individuo cerca di massimizzare il benessere della propria famiglia a scapito di altre famiglie. La marginalità economica della comunità da lui studiata veniva attribuita al familismo amorale.
Negli anni Novanta un altro studioso americano, Robert Putnam, ha attribuito la marginalità economica del meridione all’assenza di civismo. Putnam nei suoi studi ha messo in rilievo l’importanza del capitale sociale dividendolo in “bonding”, cioè una interazione entro l’ambito famigliare non tanto diversa dal familismo amorale di Banfield, e “bridging”, cioè una interazione oltre l’ambito famigliare. Le tesi di questi studiosi americani mi hanno incoraggiato a condurre una ricerca nel paese dove sono nato e cresciuto non lontano da Chiaromonte, pubblicata nel 2016 “Una Piazza Meridionale”. I miei interlocutori mi hanno parlato di mancanza di fiducia, di collaborazione, di pensare esclusivamente al benessere famigliare, caratteristiche già riportate da Banfield e Putnam. Per superare le tesi del familismo amorale e mancanza di civismo, ho cercato di trovare una via di uscita con la mia tesi del “gruppismo”, dividendolo in “gruppismo ricreativo”, che non arreca benefici alla comunità, e “gruppismo produttivo”, che se è ben fatto potrebbe creare varie opportunità lavorative.
Dal punto di vista sociologico, il gruppismo vuole essere un meccanismo di scambio di opinioni ed esperienze, di assistenza reciproca che sono condizioni cruciali per una collaborazione ed una probabile crescita economica. Il gruppismo incoraggia collegamenti con vari segmenti della popolazione raggruppando gente di occupazioni ed esperienze diverse oltre i legami familiari; rappresenta una forma di capitale sociale “bridging”. Col gruppismo si riuscirà a creare nuovi lavori e dignità per tanti giovani meridionali disoccupati che ancora oggi sono costretti ad andarsene altrove in cerca di un futuro migliore. Con la creazione di opportunità lavorative verrà fuori anche il civismo, perché quando si lavora si sta meglio economicamente e quando si ha la pancia piena l’individuo riesce a partecipare in associazioni di volontariato per aiutare chi non ha la pancia piena. Il gruppismo si base sui legami sociali che sono aspetti importanti della vita quotidiana.
Se i legami del capitale sociale “bonding” entro la famiglia sono stretti e aiutano l’individuo a sbarcare il lunario, sono i legami del capital sociale “bridging” oltre l’ambito famigliare che, sebbene meno stretti, fanno fare dei progressi. Quando si è disposto a lavorare in un gruppo si riesce, il piu` delle volte, a produrre i risultati desiderati. In altre parole, quando un meridionale in piazza chiede a tanti amici di organizzare una cenetta, in poco tempo e con grande cooperazione si organizza una cenetta favolosa difficile da dimenticare e che, spesso, viene ricordata nelle gioviali conversazioni in piazza. Questo gruppismo lo definirei “ricreativo”. Quando però un meridionale chiede in piazza a tanti amici di fare delle cooperative per creare lavoro nella comunità, una proposta del genere viene accolta con tanti “se” e “ma” e dopo mesi di discussioni, assillati anche da una mancanza di fiducia verso gli altri, raramente approda in porto. Questo “gruppismo produttivo” non viene recepito con lo stesso entusiasmo di quello “ricreativo”.
Quando ho presentato “Una Piazza Meridionale” a Roma presso la libreria Testaccio, un giovane mi ha chiesto se l’interazione mafiosa faccia parte del “gruppismo produttivo”. L’ho ringraziato per la domanda espandendo la mia tesi sul gruppismo e dividendolo in “gruppismo produttivo positivo” e “gruppismo produttivo negativo”. L’interazione mafiosa è un’ interazione che si concentra sul benessere del clan mafioso con atti amorali, criminali a discapito dell’intera società, fa parte di un “gruppismo negativo amorale” non tanto diverso dal familismo amorale di Banfield in cui l’individuo pensa a massimizzare il benessere della sua famiglia a discapito di altre famiglie. Al contrario, il “gruppismo produttivo positivo” si fonde sulla cooperazione tra gli individui, sui loro legami sociali oltre l’ambito famigliare, sulla loro predisposizione ad aiutarsi a vicenda, a collaborare; è una specie di virtù civile che invoglia l’individuo a collaborare per creare un benessere collettivo. È un gruppismo che enfatizza i legami sociali, i network sociali aspetti importanti della quotidianità. Sono questi legami sociali che aiutano l’individuo non solo a trovare lavoro, ma anche un supporto psicologico in caso ne abbia bisogno. Costa niente piangere sulla spalla di un amico/a che sul sofà dello psicologo/a.
Credo che nel Meridione dovremmo scrollarci dalle spalle vecchi comportamenti tramandati da padre in figlio. Comportamenti che enfatizzano solo il proprio orticello familiare, che nell’era della globalizzazione e del villaggio globale non funzionano come prima. Certo, non è facile scrollarsi dalle spalle una cultura basata sull’assistenzialismo, sul clientelismo, sull’idea del posto fisso, della raccomandazione. Bisogna però sperimentare nuovi comportamenti che stimolino la fiducia verso gli altri, per creare una eventuale collaborazione comunitaria verso un benessere collettivo. I finanziamenti suggeriti dalla politica economica bisogno utilizzarli anche per creare un’acculturazione corporativa con seminari, con tavole rotonde ricche di dialoghi per promuovere una nuova mentalità di raggruppamento per liberarsi dall’assistenza governativa. Abbinando la politica economica alla politica culturale si potrebbe ridurre il divario tra il Nord ed il Sud.