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January 2, 2016
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Gucci, la qualità che creò il Made in Italy

Riccardo GiumellibyRiccardo Giumelli
Time: 5 mins read

E’ il primo brand italiano nel mondo, secondo Interbrand , società autorevole nel valutare i migliori brand globali. Si tratta di Gucci. Viene prima di Nestlé, Porsche e Visa. E tra gli italiani, anche prima della Ferrari. Insomma un simbolo mondiale del Made in Italy, anche se dai primi anni’90 è nelle mani dei francesi della Kering, i quali gestiscono anche le “italiane” Bottega Veneta, Pomellato, Brioni e Sergio Rossi.

Con queste premesse, incontriamo Patrizia Gucci, pronipote di Guccio, fondatore dell’azienda, figlia di Paolo, rappresenta la quarta generazione della famiglia. La sua carriera ha inizio nell’impresa di famiglia nelle pubbliche relazioni internazionali del marchio, poi è attiva come designer. Lascia l’azienda nel 1992 e diventa una fashion designer indipendente, interior decorator, scrittrice e pittrice. Si definisce una donna contemporanea del Rinascimento che lavora per creare emozioni e offrire un’infinita esplorazione nella bellezza e nello stile.

La incontriamo in occasione di un evento organizzato dall’Osservatorio Monografie istituzionali d’impresa presso l’Università di Verona, per presentare il suo ultimo libro Gucci. La vera storia di una dinastia di successo.

Innanzitutto, anche se la domanda le suonerà ripetitiva, vorremmo sapere come nasce il libro? Quali le motivazioni che stanno dietro alla sua stesura?

“Questo libro nasce come un dovere di membro della famiglia perché nessuno della famiglia lo aveva fatto prima. Sono stati scritti tanti libri brutti, non autorizzati, con scritte cose inesatte e anche poco simpatiche. Quindi, ho sentito il dovere di raccontare questa memoria, la storia di una grande famiglia. E’ stata l’esigenza di lasciare scritto quello che i membri della mia famiglia, visto che molti sono anche morti, hanno fatto”.

Quale è stato il rapporto tra Firenze e la famiglia Gucci? Quale il contributo di quella meravigliosa città al successo di un marchio mondiale?

“Prima di tutto Firenze è una città che dà tanto. Crescere lì vuol dire assorbire senso dell’ estetica e bellezza spesso inconsciamente. Mio nonno Aldo, che andò in America negli anni’ 50, diceva “io porto il Michelangelo in America”( lo dichiarò Aldo Gucci in un’intervista al New York Times nel 1980 nda). Quindi la bellezza, l’idea dell’artigianato, in particolare modo quello fiorentino, che a quell’epoca era un’eccellenza. Forse oggi non è più così.

Anche io sono stata influenzata nel senso dell’estetica e del gusto da quella che era la mia famiglia con il contorno nel quale era immersa”.

New York è stata una città particolarmente importante per la famiglia Gucci. Alla città si dedica infatti un capitolo del libro: New York, New York.  Quale è stato il suo rapporto con la grande Mela? 

“Innanzitutto ho vissuto a New York, da ragazzina, quanto mio padre viveva tra Londra e la stessa New York. Io ero entusiasta di vivere lì. Mi dava adrenalina, ci potevo trovare tutto, si poteva girare da sole. New York è una città fantastica. Unica per come accoglie lo straniero”.

Gucci, per la società Interbrand, è il primo brand italiano nel mondo. Come si raggiunge un così grande successo?

“Siamo stati tra quelli che hanno inventato la moda italiana. Iniziò il mio bisnonno, Guccio Gucci, a fare borse, valigiotti. Siamo nel 1920 quando ancora c’erano le carrozze. E’ un marchio che è riuscito ad imporre uno stile di vita. Anche se a parlare di marchio si è iniziato negli anni ’80, al massimo negli anni’70. Prima la parola marchio non esisteva nemmeno. Noi siamo stati veramente i primi negli anni’50, quando non c’era Valentino, Armani, non c’era nessun altro. Noi poi facevamo borse e valigie all’inizio, l’abbigliamento è arrivato dopo. Gucci era un simbolo, oggi è più globalizzato, come Prada. Gucci prima si distingueva molto, oggi è cambiato e segue più le tendenze globali. Quando Gucci era dei Gucci si vedeva. L’originalità è stata importante. Tutti i disegni, nonostante siano stati venduti, dell’archivio che abbiamo fatto noi sono gli stessi che oggi hanno riprodotto allo stesso modo. Ho riconosciuto delle cose che quando avevo quindici anni, disegnate da mio papà, sono state rifatte, magari cambia solo il colore. E’ anche per questo che ho sentito il dovere di raccontare dall’inizio come le cose sono nate”.

Ci sono prodotti fatti in Italia, altri delocalizzati, altri acquisiti da stranieri ma rimangono italiani, altri ancora stranieri ma che vendono l’Italian way of life.  Cosa pensa del tema del Made in Italy in relazione ai cambiamenti provocati dalla globalizzazione?

“Anche in questi giorni abbiamo assistito alla vendita di Pininfarina, o almeno una gran parte venduta agli indiani, ma rimane Made in Italy perché fatto in Italia. E va bene anche così. Pensando ai marchi americani, qualche giorno fa’ ho comprato delle cose di Ralph Lauren, dove c’era scritto Made in China. Sicuramente è stata una scelta per ottimizzare i costi. In ogni caso il Made in Italy ancora regge, supportato da acquisizioni che permettono di immettere capitale fresco. Di questi tempi sono necessari investimenti dall’estero ma è importante che rimanga il Made in Italy.

Il Made in Italy è gusto, creatività, è genialità unica”.

Dal punto di vista economico l’Italia si è ricostruita, dopo il secondo dopo guerra, anche attraverso famiglie che sono diventate imprese. Ma cosa significa far parte in Italia di una famiglia impresa oggi? 

“Devo dire che sono rimaste poche. La forza della nascita di quelli che sono diventati marchi riconosciuti era proprio nella famiglia, che ci metteva tutta la passione possibile per far diventare un prodotto speciale. Con la globalizzazione prendono piede le grandi multinazionale e questo va a discapito del prodotto, perché prevale l’idea di vendita, magari trascurando il customer service. Chi però ha la fortuna di avere dietro delle famiglie riesce a curare ancora il cliente. Questa è sicuramente una forza”.

Recentemente Miuccia Prada ha detto che “essere italiani non basta più” . Bisogna essere di più, internazionalizzarsi, altrimenti non si esiste. E’ d’accordo con questa idea? 

“Sono d’accordo che i nomi vadano esportati in altri paesi, ma questo non vuol dire che debbano perdere la loro identità. Per esigenze di marketing, investimenti, per crescere è necessario mettersi nel mondo ma senza perdere la propria essenza”.

Qual è stato il vero segreto dei Gucci?

“Il vero segreto è stato tutto nel prodotto. Il mio bisnonno, che non ho conosciuto, ma me l’hanno raccontato riusciva ad avere un occhio particolare. Andava dagli artigiani ai quali chiedeva di migliorare un angolino di una borsa. Magari lo guardavano sorpresi ma quando completavano il prodotto veniva una cosa eccezionale. Creatività, originalità,  trascorrere il proprio tempo curando i clienti, erano i segreti dell’azienda. Creare un prodotto che poi tutti volevano avere, attraverso una diffusione che avveniva con il passaparola. Poi piano piano diventa uno lifestyle. Sinceramente non amo chi sfoggia una borsa solo per far vedere la griffe grande e in evidenza. Non seguo le griffe solo per ostentare, come accade molto spesso oggi”.

Il libro è pieno di aneddoti che raccontano cosa è stata Gucci negli anni. Voglio ricordarne uno, che più che un aneddoto è un motto. Lo inventò il nonno di Patrizia Gucci, Aldo. Venne stampato in oro su pelle e incorniciato in ogni negozio Gucci: “Quality is remembered long time after price is forgotten”. Quello che poi ha fatto grande il Made in Italy.

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Riccardo Giumelli

Riccardo Giumelli

Un aforisma che più di altri mi rappresenta è quanto scrisse Machiavelli, citando Boccaccio: “che gli è meglio fare e pentirsi, che non fare e pentirsi”. Come loro sono toscano, animo inquieto in cerca di porti per approdare e ripartire. Dopo gli studi in Scienze politiche, ho iniziato ad amare i libri, fare ricerca e scrivere, al punto da rimanere nell’Università, prima Firenze poi Trento. A Dijon e poi a Parigi, ho lavorato alla Camera di Commercio italiana e all’OCSE. Tornato in Italia, sono approdato a Verona, dove faccio ricerca e insegno. Intanto un matrimonio e due splendide gemelline. Mi occupo di sociologia, cultura e comunicazione. Tra tanti nuovi inizi e altrettanti epiloghi, una costante: ho sempre tifato Inter. Infatti soffro di stomaco.

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