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April 29, 2015
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La ‘guerra’ dei due vescovi: monsignor Mogavero e monsignor Miccichè

C. Alessandro MauceribyC. Alessandro Mauceri
Time: 10 mins read

Qualcuno li ha definiti i duellanti della Chiesa siciliana. Due alti prelati. Anzi due vescovi. Due uomini di Dio che, da anni, si tirano fendenti tremendi. Proprio come i protagonisti di un celebre racconto di Conrad. Mentre i due protagonisti di questo singolare scontro, ora segreto, ora sotto le luci della ribalta, sono monsignor Francesco Miccichè, già vescovo di Trapani (oggi caduto in disgrazia) e monsignor Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo. L’uno accusa l’altro. E l’altro replica accusando l’uno. Un batti e ribatti che è finito sui tavoli dei magistrati. Così le vicende (forse sarebbe più corretto parlare di vicissitudini) sono finite sui tavoli dei magistrati trapanesi. Ma andiamo con ordine.

Cominciamo con monsignor Francesco Miccichè, classe 1943, natali a San Giuseppe Jato, in provincia di Palermo. Negli anni ’80 era considerato un uomo di Santa Romana Chiesa molto dinamico. Il grande balzo in avanti lo compie nel 1988, quando l’allora Arcivescovo di Palermo, Cardinale Salvatore Pappalardo, su mandato del Papa Giovanni Paolo II nomina monsignor Francesco Miccichè vescovo di Messina-Lipari-Santa Lucia del Mela. Una diocesi storica, quella di Lipari, che solo da pochi anni è stata unificata a quella di Messina. A Lipari Miccichè (è il più giovane vescovo d’Italia, a soli 45 anni), comincia a farsi i primi nemici. A molti non piace la sua ostinazione nell’interessarsi attivamente di problemi sociali. Come ha confermato l’ex assessore di Lipari, Antonino Costa: “Gli uomini di quel tempo spesso gli furono ostili o tiranni, accusando il vescovo di fare il politico e non il pastore di anime”. Ciò nonostante, grazie ad un notevole riscontro (soprattutto tra i giovani), Miccichè riceve diversi riconoscimenti importanti tanto che, nel 1991, viene nominato delegato della Conferenza episcopale siciliana per i giovani.

Un attivismo che lo porta ad essere trasferito, nel 1998, all’Arcivescovado di Trapani. Qui si trova di fronte a due fenomeni, tra loro interconnessi: mafia e massoneria. Per gli uomini di Chiesa che operano in Sicilia non è una novità. Alla fine degli anni ’80 monsignor Emanuele Catarinicchia, nel lasciare la guida dell’Arcivescovado di Cefalù, rilasciava alla stampa una pesantissima dichiarazione proprio contro le due emme: la mafia e la massoneria. Due “problemi” che in Sicilia, e in modo particolare in alcune province dell’Isola, sono radicati da decenni.

monsignor miccichèMonsignor Miccichè (nella foto a sinistra tratta da trapanioggi.it) arrivando a Trapani – così si raccontava in quegli anni – sembrava un po’ accerchiato. Ed è proprio lo stesso vescovo di Trapani a raccontare le proprie impressioni su Trapani: ”La massoneria ha messo radici profonde nella nostra città, condizionandone la vita e lo sviluppo. Le diocesi della Sicilia occidentale, tra le quali quella trapanese, operano in un territorio che è storicamente la culla del fenomeno malavitoso tristemente noto con il nome di mafia”.

Sono gli anni (ma la situazione non è molto cambiata da allora) in cui Trapani è “terra di frontiera” sia sotto il profilo religioso, sia sotto il profilo sociale: la mafia ha infiltrazioni profonde anche nel tessuto politico. Mafia e massoneria sono spesso colluse con i poteri forti presenti nel territorio di questa provincia. Il tutto avviene in un ambiente solo apparentemente pacifico, dove la violenza e la criminalità che impazzano in altre parti dell’Isola sembrano non essere arrivate.

Ma, per l’appunto, è solo apparenza. Perché nel Trapanese non sono certo mancati i ‘delitti eccellenti’, dall’uccisione di Vito Lipari, il 13 agosto del 1980 (ex sindaco di Castelvetrano, candidato alle elezioni politiche nazionali nella Dc) all’assassinio del giudice Gian Giacomo Ciaccio Montalto (delitto avvenuto il 23 gennaio del 1983). A cui seguirà, il 2 aprile del 1985, la strage di Pizzolungo: una bomba che avrebbe dovuto uccidere il giudice Carlo Palermo e che, invece, provocherà la morte di Barbara Rizzo e i suoi figlioletti di sei anni, Salvatore e Giuseppe (l’automobile guidata dalla donna fece da scudo a quella del magistrato). Per non parlare dell’assassinio del giornalista Mauro Rostagno, ammazzato il 26 settembre del 1988 perché, con le sue inchieste, aveva iniziato a dare fastidio ad una provincia ‘difficile’, dove la mafia è presente dalla prima metà dell’800, come denunciava in un celebre scritto l’allora procuratore del Regno, Pietro Calà Ulloa.

Una calma che è solo apparente, insomma, quella di Trapani e dintorni. Come dimostra il prosperare, nel territorio, di logge massoniche e mafia (basti pensare alle logge ‘coperte’ che operavano dentro il circolo ‘Scontrino’). E dove molte banche aprono più sportelli di quanto sarebbe normale aspettarsi (visto il volume d’affari delle attività registrate). Anche qui, come era già successo a Lipari, la presenza del clero è tollerata. A patto, però, che non interferisca con gli “affari”. Altrimenti…

Miccichè denuncia di avere subito pressioni dalla mafia: “Anch’io da subito arrivato in diocesi – ha raccontato monsignor Miccichè al settimanale l’Espresso, nell’ottobre dello scorso anno – fui avvicinato da persone di questo genere che mi chiesero con fare perentorio di interessarmi in loro favore presso la Procura di Trapani che aveva sequestrato i loro beni, reputandoli prestanome di potenti mafiosi di Alcamo. Il mio diniego fu secco e l’atteggiamento e le parole degli interessati suonarono come una minaccia. Ma non mi pento affatto di avere agito come ho agito e di non essermi piegato ai loro dictat”. Denunce pesanti che rischiano di smuovere le acque e di attrarre l’attenzione di molte, troppe persone (e delle autorità) su una parte della Sicilia da sempre ‘presidiata’ dalla mafia.

Non passa molto tempo che cominciano a circolare voci strane sull’operato del prelato e del suo assistente, don A. T., personaggio dai contorni ancora pochi chiari in molte vicende (AGGIORNAMENTO. Nel 2017 A.T è stato assolto dalla magistratura italiana da tutte le accuse).  Don T. viene sospeso ‘a divinis’ (successivamente, la procedura verrà confermata dal Vaticano). È lo stesso T., che secondo molti gode di appoggi potenti presso le altee sfere, che accusa il vescovo di aver sottratto più di un milione di euro nella fusione di due ricche fondazioni gestite dalla Curia trapanese. Il tutto avrebbe avuto inizio nel dicembre 2007, dopo la fusione, per incorporazione, della fondazione ‘Campanile’, gestita direttamente da Miccichè, con la ‘Auxilium’, gestita da suo cognato Teodoro Canepa.

monsignor mogaveroScontri pesanti, all’interno della Curia di Trapani, che costringono Papa Benedetto XVI, nel giugno 2011, ad incaricare monsignor Domenico Mogavero (nella foto a destra tratta da youtube) di indagare come visitatore apostolico. “Le mie funzioni – dice monsignor Mogavero quando inizia ad occuparsi della vicenda – saranno di tipo istruttorio. Dovrò fare luce su una serie di fatti poco chiari nella diocesi trapanese segnalatimi dal Vaticano e riferirne quindi alla Santa Sede”.

Da sempre, la Chiesa ha cercato di lavare in casa i propri panni sporchi (si pensi alle decine, anzi, alle centinaia di casi di preti pedofili e al ridotto numero di procedimenti penali che, invece, si sono svolti). Monsignor Miccichè, invece, con la sua scelta di denunciare i fatti alla magistratura rompe questa specie di vaso di Pandora. Quello che ne è uscito (e che continua a venire fuori) sembra non aver fine. L’altro prelato, nel tentativo di agevolare l’indagine condotta dai magistrati (nel frattempo la pratica è finita in Procura) consente agli inquirenti l’accesso ad alcuni luoghi di culto coinvolti nell’indagine per  transazioni immobiliari sospette. Cosa, questa, che peggiora la sua posizione nella procedura condotta dalla Santa Sede.

A seguito delle indagini del Vaticano condotte da monsignor Mogavero, dopo nove mesi, nel maggio 2012, Miccichè riceve una nota, inviata dalla Santa Sede e classificata “segretissima” (tanto segreta che viene riportata in un articolo del settimanale ‘Panorama’), nella quale viene “invitato” a dimettersi. Pena, in caso di rifiuto, la destituzione d’ufficio entro 72 ore. Miccichè lancia un grido di protesta in cui si dichiara vittima sacrificale. Accusa la massoneria di aver esercitato pressioni affinché il Vaticano giungesse a questa decisione. Ad Antonio Giangrande, autore del volume “Appaltopoli: appalti truccati”, monsignor Miccichè riferisce anche di essere stato minacciato: “Mi venne detto da un padre della Società religiosa di San Paolo che, se non mi fossi convertito e iscritto alla massoneria, avrei fatto una brutta fine”.

Con le sue dimissioni e con la sospensione ‘a divinis’ di T. sembrerebbe essere finito tutto. Ma se la vicenda religiosa sembra conclusa, quella giudiziaria non lo è di certo. Il nome di T. compare negli incartamenti di un’inchiesta della Procura di Trapani (14 indagati con ipotesi di reato che vanno da diffamazione, calunnia e falso, a truffa, appropriazione e riciclaggio: AGGIORNAMENTO; Nel 2017 Don T. è stato assolto): secondo gli inquirenti, T., cosa anomala per un semplice sacerdote, avrebbe aperto alcuni conti correnti allo Ior (la banca del Vaticano, più volte finita nel mirino della magistratura). La Procura di Trapani avvia una rogatoria internazionale, ma senza ottenere l’accesso completo agli atti.

Don T. decide di collaborare con gli inquirenti. Rilascia anche accuse pesanti durante il processo per concorso esterno in associazione mafiosa contro il senatore Tonino D’Alì (parla di pressioni dell’ex sottosegretario su commercianti e politici e dei suoi rapporti con Matteo Messina Denaro). Ma non viene ritenuto attendibile e, alla fine, D’Alì viene assolto da alcune accuse (altre cadono in prescrizione). Don T. se la deve vedere con la giustizia ecclesiastica: la Chiesa lo condanna a cinque anni di interdizione dal sacerdozio col divieto di portare l’abito talare e alla restituzione di soli 36 mila euro (in verità molti si attendevano una condanna più pesante).

Intanto negli uffici della Procura di Trapani cominciano a girare dossier anonimi, lettere false, bonifici bancari transitati sui conti dello Ior e transazioni con firme apocrife. Pare che finiscano nelle mani degli inquirenti anche foto del T. in stanze del Vaticano vicine a quelle del Pontefice (foto messe in rete e poi oscurate). Un volume di informazioni difficile da gestire e da filtrare per comprendere quanto ci sia di vero e quanto, invece, sia falso. Una cosa è certa: si tratta di una vicenda che rimane oscura. Anche le dimissioni di monsignor Miccichè non chiudono una storia assai tormentata.

Non passa molto tempo e la Procura di Trapani, guidata da Marcello Viola, viene chiamata a valutare altri dossier, presentati questa volta proprio dall’ex vescovo Miccichè. A finire sotto la lente d’ingrandimento dei magistrati, questa volta, è il vescovo di Mazara del Vallo, Domenico Mogavero, presidente del Consiglio per gli affari giuridici della Cei (Conferenza episcopale italiana) lo stesso che, solo pochi mesi prima, aveva gestito l’inchiesta del Vaticano su di lui.

Secondo quanto riportato nella denuncia (e pubblicato dal settimanale Panorama), monsignor Mogavero sarebbe corresponsabile del ‘buco’ da sei milioni di euro nei conti della diocesi di Mazara del Vallo. Immediata la smentita del vescovo: “Questa notizia è priva di fondamento”, dice monsignor Mogavero. Che, però, rimuove immediatamente dal loro incarico chi si era occupato della gestione dei conti. Il vescovo dichiara che la situazione dei conti della diocesi di Mazara sarebbe perfettamente sotto controllo. E in una nota indirizzata al settimanale Panorama precisa: “Tutto è passato dal collegio dei consultori e dal consiglio degli affari economici. Financo il parere per stipulare i 4 milioni e 700 mila euro di mutuo che è stato autorizzato dalla Santa Sede”.

Ancora una volta responsabilità ‘spirituali’ e materiali si sovrappongono. Per questo monsignor Mogavero convoca tutti i preti della diocesi e distribuisce un documento in cui viene riportato lo stato delle economie della diocesi di Mazara del Vallo. Alla fine dichiara: “Siamo in una situazione di grande difficoltà: da questo momento cambieranno tante cose”. Dal documento emergono spese poco giustificabili, una gestione forse troppo “in grande” (specie per la sottoscrizione di mutui per realizzare chiese, come quella di Pantelleria, e per di più con spese reali che lievitano oltre il previsto), vendite di immobili gestite in modo quanto meno superficiale, disparità nei trattamenti tra una parrocchia e l’altra e molto altro ancora. Alla fine il vescovo riconosce le proprie responsabilità: “È colpa mia, lo so”, ma solo di non aver saputo. Per questo scarica la responsabilità di quanto avvenuto sui collaboratori. I quali, però, non ci stanno a fare la parte degli agnelli sacrificali e si danno da fare per smentire le dichiarazioni di Mogavero.

Una storia dai contorni ancora non ben definiti che, come quella dell’ex vescovo di Trapani, Miccichè, avrebbe il ‘difetto’, secondo alcuni, di essere stata resa pubblica, cioè di essere finita sui giornali, invece di essere risolta nella privacy degli uffici del clero. Una vicenda alla quale, di recente, si è aggiunto un altro tassello (anche questo ‘pubblico’): monsignor Francesco Miccichè, ormai ex vescovo di Trapani, ha denunciato per diffamazione e violazione del segreto istruttorio monsignor Domenico Mogavero. “Ogni volta che lo stesso Mogavero veniva convocato presso la Procura di Trapani c’era inoltre la presenza del giornalista di turno pronto a divulgare la notizia. Grazie all’incarico di visitatore apostolico, Monsignor Mogavero ha avuto grande visibilità su determinati organi di stampa”, ha detto Miccichè. E ha aggiunto: ”Ciò gli ha consentito non solo di influenzare l’opinione pubblica, ma anche di esprimere idee ed opinioni in nome e per conto dell’episcopato siculo, di giudicare, con toni sferzanti, sia l’operato di Papa Benedetto XVI che del suo segretario di Stato, Cardinale Tarcisio Bertone”.

Un’accusa, quella di monsignor Miccichè, che non è rivolta solo all’inquisitore (colpevole anche, secondo l’ex vescovo di Trapani, di non averlo mai interrogato e di averlo diffamato, divulgando i contenuti della relazione segreta consegnata al Papa). L’ex numero uno della diocesi trapanese ha anche più volte chiesto di parlare con il pontefice. Ma a quanto pare, fino ad oggi, non ha avuto molta fortuna. Ma non basta: nella sua denuncia, Miccichè parla anche del rapporto tra monsignor Mogavero e T. “Rapporto che, invero, esisteva già in epoca antecedente al mandato di visitatore apostolico. Lo stesso si vantava di organizzare per conto di Mogavero conferenze e quant’altro”, dice Miccichè. “Il Vaticano ha sentenziato la mia condanna dipingendomi come un essere immorale da tenere alla larga, mi ha rottamato come pastore indegno, mi ha classificato mafioso, truffaldino e inaffidabile, mi ha trattato peggio di un delinquente, condannato all’inazione come un minus habens, un incapace”, ha scritto nel suo memoriale monsignor Francesco Miccichè.

Vengono fuori anche altre note interne al Vaticano (riportate, però, solo in una nota massoneria bisfirmata da un giornalista, S. Sarpi). Come il presunto giudizio lusinghiero espresso dal Collegio dei consultori, all’indomani dell’incontro con Monsignor Mogavero: “Fin dall’inizio del suo ministero episcopale in Diocesi, Monsignor Francesco Miccichè ha offerto ad essa un preciso progetto pastorale e non si è mai risparmiato nel rendersi presente ad ogni, seppur piccola, iniziativa in tutte le parrocchie. Ha voluto, con instancabile impegno, sempre animare e guidare le molteplici iniziative pastorali e s’è reso disponibile a soddisfare ogni richiesta d’incontro sia da parte dei presbiteri, sia di numerosi fedeli”. Un documento che reca la firma dell’allora vicario generale, Liborio Palmeri, e di altri sette sacerdoti. Ebbene questo documento, datato 9 novembre 2011, e fino ad oggi rimasto inspiegabilmente inedito, riporterebbe anche l’opinione secondo la quale il malessere all’interno della Diocesi di Trapani non sarebbe colpa di Francesco Miccichè, ma una campagna stampa orchestrata ad hoc contro di lui. Dalla massoneria? Dalla mafia?

Ancora una volta appare evidente un problema senza precedenti nella storia recente della Chiesa cattolica: un vescovo che denuncia apertamente un altro alto prelato. Tanto che, per chiarire i fatti e per risolvere il contenzioso, il Pontefice ha deciso di nominare un collegio giudicante composto da tre vescovi (o cardinali). Una vicenda strana, fatta di intrecci e di comportamenti che non sarà facile ricostruire, né all’interno del Vaticano né in Procura. Una storia nella quale due vescovi si accusano a vicenda.

Questo fino a febbraio scorso quando, con un colpo di scena inaspettato, i magistrati della Procura di Trapani hanno aperto una nuova inchiesta per appropriazione indebita e malversazione di fondi pubblici nei confronti di Miccichè. Per questo gli inquirenti hanno disposto il sequestro di argenteria, arredi sacri e altri oggetti di valore nella sua abitazione di Monreale. Non solo. Nei giorni scorsi è stato aggiunto una nuova puntata a quella che sembra sempre più somigliare ad un interminabile serial televisivo: nei confronti di Miccichè è stata mossa una nuova accusa: quella di essersi appropriato di fondi derivanti dall’8 per mille. Per questo motivo, uomini del Corpo forestale e della Finanza si sono recati nella sua abitazione e hanno posto sotto sequestro arredi sacri, argenteria e titoli di credito, per un valore complessivo di alcuni milioni di euro…

Una vicenda che ha fatto emergere molti dubbi e molte domande. Per esempio: come mai quando si è trattato di monsignor Miccichè, accusato di aver provocato un ‘buco’ di circa un milione di euro nella gestione delle ‘casse’ della diocesi di Trapani è stata aperta un’inchiesta interna da parte della Santa sede, mentre ora che il ‘buco’ nella diocesi di Mazara del Vallo sarebbe di sei volte superiore a quella della diocesi trapanese nessuno, in Vaticano, ha pensato di indagare? Due pesi e due misure?

Di quella che ormai potrebbe essere chiamata ‘La guerra dei vescovi’ non sembra ancora essere ancora il momento di scrivere la parola fine. Anzi.

Foto tratta da newscattoliche.it

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