Chissà se quando ha scelto il titolo del suo recente Mondovisione, Ligabue sapeva già che quell’album lo avrebbe portato per la prima volta negli States. In 25 anni di carriera da cantautore, regista e scrittore, la voce morbida di Luciano Ligabue da questa parte dell’Atlantico non era arrivata mai. Ma le cose stanno per cambiare. Il 18 ottobre il Liga sarà a Toronto per poi proseguire con date a New York (19 ottobre), Los Angeles (22 ottobre), San Francisco (24 ottobre) e Miami (26 ottobre). Lasciate in Italia le folle oceaniche degli stadi, negli States Ligabue tornerà a suonare per il puro piacere della musica e del pubblico. E nella terra del blues e del rock’n’roll, chissà che la sua emiliana voce graffiata (che leggenda vuole sia il risultato di un’operazione alle tonsille) non trovi dei fan anche tra gli americani.
Intanto, in attesa di vederlo a New York, la sua voce calda e italianissima ci arriva al telefono e ci racconta i suoi pensieri mentre si prepara a partire alla volta degli States.
Luciano Ligabue, cosa ti porta in America?
La voglia di continuare a suonare. Fare concerti è la cosa che preferisco del mio lavoro, che non è una parola che si presta poi molto a quello che faccio… (ride). Dopo gli stadi e i grandi concerti in Italia avevo bisogno di trovare qualcosa di nuovo, qualcosa che non avevo mai fatto. E così è nata questa sfida.. Mi piace molto l’idea che delle città che ho visitato tante volte per turismo diventino anche città in cui andrò per lavoro.
Una sfida? Dopo tutti questi anni parli ancora di sfide?
Venendo, appunto, da grandi concerti negli stadi con delle produzioni mostruose, l’idea di tornare a suonare in posti piccoli dove arriviamo, montiamo un amplificatore, e tutto quello che faremo è… musica (che per noi è tantissimo) per me rappresenta una novità. Mi piace il fatto di avere un contatto più diretto e ravvicinato con il pubblico, una cosa quasi fisica.
Cosa porterai in America?
Sarà diverso dai concerti che faccio in Italia perché voglio portare un po’ tutto, la musica degli album degli ultimi vent’anni, per potermi raccontare al pubblico d’oltreoceano che magari segue meno la musica italiana.
Cosa ti aspetti? Che tipo di pubblico?
Onestamente non lo so e sarà una bella sorpresa. Suppongo che molti saranno italiani, inevitabilmente. Io faccio un genere di musica, il prog rock, che tutto il mondo canta in inglese, mentre io continuo a cantare in italiano: è quello che ho sempre fatto e sempre farò. Questo in qualche modo mi pone fuori dal mercato. Credo che anche per questo, rispetto ad altre cose italiane, il mio genere sia meno esportabile e infatti questa è la prima volta che mi esibisco in America. Ma dietro c’è soprattuto la voglia di viversi un’esperienza che ho intenzione di godermi il più possibile e soprattutto di farla godere a chi verrà a sentirmi.
Credi che la musica italiana contemporanea sia esportabile?
Uno come me è difficilmente esportabile. Io non faccio musica italiana che aderisce al modo in cui l’Italia viene percepita all’estero. Quell’approccio melodico che ha portato al successo all’estero altri musicisti italiani non c’è nella mia musica. Io mi muovo nell’ambito del rock che è un mondo occupato da band che lo fanno in inglese e quindi è più difficile inserirsi. O uno dovrebbe essere capace di produrre un genere totalmente nuovo, oppure è difficile. La cosa che mi colpisce invece è che nella dance music l’Italia funziona. Ecco, forse loro sono stati capaci di inventarsi qualcosa di nuovo… Chissà..
In che modo il Luciano Ligabue di oggi è diverso da quello degli inizi? Ti senti cambiato? Ti senti un musicista diverso?
Sono sicuro di essere cambiato e sarei preoccupato se non fosse così: tutti cambiamo, che ci piaccia o no… La nostra vita ci porta lutti, nascite, eventi che modificano il nostro modo di stare al mondo e di vedere le cose. Ma in termini di energia non mi sento diverso, anche se, certo, oggi i tempi di recupero sono più lunghi (ride). A livello di comunicazione, invece, credo che il cambiamento più evidente stia nel fatto che nei mie primi album usavo dei suoni, come per esempio le chitarre distorte, che avevano un po’ la funzione di nascondermi. E anche nei testi, raccontavo più storie di personaggi e cose a me esterne. Oggi invece mi racconto di più e mi prendo volentieri questa responsabilità sapendo di avere un patto con chi mi segue. Mi ritengo molto fortunato e il minimo che posso fare è aprirmi al mio pubblico, dire loro come sono fatto. E oggi il mio me stesso finisce sempre, e sempre di più, nelle cose che scrivo, che siano album o racconti.
Qual è il tuo rapporto con la musica americana?
Sono un fan totale! Nella mia musica i miei riferimenti sono il rock e il blues, quindi ovviamente per me la musica americana è tutto. Questa estate quando, durante un giro tra varie città con la famiglia, eravamo a Chicago e io volevo andare a visitare gli studi Chess Record che sono una vera istituzione del blues elettrico dove hanno suonato gente come Willie Dixon e Muddy Waters e che la figlia di Dixon ha oggi trasformato in un museo. Per me era una sorta di pellegrinaggio. Ci sono rimasto malissimo però perché, quando ho chiesto al tassista di portarci agli studi, non aveva mai sentito nominare il posto. Gli abbiamo dovuto dire noi dove era e quando siamo arrivati il museo era chiuso, nonostante dagli orari dovesse essere aperto. Il tassista, che tra l’altro era di colore, alla fine era tutto contento perché gli abbiamo raccontato la storia e spiegato dove si trovava. Ma altrimenti non aveva idea che fosse un museo. Insomma, mi pare che l’America stessa stia un po’ perdendo quella tradizione…
Una tradizione che invece per te ha ancora un valore…
Quel linguaggio del blues, che poi si è trasformato e ha preso mille forme diverse, ha cambiato la società e la vita di molte persone, me compreso. Io mi ritengo uno che fa musica italiana, ma l’idea del rock è sempre stata il filo conduttore: l’energia, la spudoratezza, l’emozione. Sono italiano ma si sono formato sulla musica americana e questo l’ho dettto anche in una mia canzone, Con la scusa del rock’n’roll, dove racconto cosa mi succedeva da ragazzino, durante e dopo l’ascolto di quella musica nella mia stanza.
E cosa ti succedeva?
Mi succedeva che quando poi uscivo dalla mia stanza affrontavo il mondo con un’altra energia, il mondo mi sembrava più vitale e colorato, positivo. Il rock’n’roll, soprattutto quello degli inizi, è un concentrato di energia: non si preoccupa di quello che dice, delle parole ma di quello che trasmette. È una celebrazione della vita. In seguito il rock si è avvicinato di più a un atteggiamento di distruzione e nichilismo, ma all’inizio era pura celebrazione della vita.
A questo punto non posso evitare di chiederti: questa celebrazione della vita, forse un tempo era anche una caratteristica dell’italianità, ti sembra che oggi gli italiani abbiano ancora la capacità di gioire o siamo ormai un popolo di lamentosi?
Io mi sento italiano fino al midollo e mi piace pensare che nelle nostre vite abbiamo la responsabilità di continuare a vedere la vita in modo positivo senza lasciarci andare a facili cinismi. Tuttavia, nella situazione in cui l’Italia è oggi, credo sia normale e umano che ci sia un po’ di sconforto. Dopo tanti anni di politiche disastrose, sarebbe impossibile non essere disillusi. E a volte la disillusione si trasforma anche in mancanza di voglia di cambiamento. Tuttavia, questi pensieri non fanno che peggiorare la tua condizione. Quindi, sì, capisco che l’Italia oggi è un po’ depressa, ma il mio messaggio è: se fate così starete peggio. La rassegnazione no! Non possiamo fermarci alle lamentele, ci sono cose che possiamo ancora fare, per esempio protestare e manifestare quel malessere.
Una delle tappe del tour americano sarà a New York. Qual è il tuo rapporto con questa città?
È una città in cui vengo spesso: una o due volte l’anno con la mia famiglia passiamo qualche giorno a New York. È una città difficile da raccontare. Ti dà la sensazione di essere al centro del mondo e produce infinite possibilità.
Allora, sei pronto per questo tour e per incontrare i tuoi fan d’oltreoceano?
Non vedo l’ora!