La mattina della nostra intervista, camminando verso il caffè del Lower East Side davanti al quale ci siamo dati appuntamento, individuo la sua alta figura già da due isolati di distanza. Alexo Wandael non passa inosservato, ma l’iniziale senso di soggezione dato dalla sua statura si trasforma immediatamente in intimità quando inizia a parlare, con quel tono pacato e allo stesso tempo deciso di chi ha il coraggio delle proprie passioni.
Una carriera da architetto lasciata alle spalle per dedicarsi alla fotografia. La scelta di vivere a New York dedicandosi prima alla fotografia di fine art e poi a quella di moda. Poi la sensazione di essere passato da qualcosa di troppo profondo, come l’architettura, a qualcosa di troppo superficiale: “Volevo trovare una via di mezzo – racconta – e allora ho cercato di realizzare dei lavori con un taglio da reportage. Sono stato a Cuba e poi in Afghanistan dove ho fatto un reportage sulle donne soldato e sui bambini nelle prigioni femminili”.
Infine, l’estate scorsa, l’idea di unire due passioni, quella per la fotografia e quella per il viaggio on the road su due ruote. Così Alexo ha avviato un campagna su Indiegogo ed è riuscito a raccogliere i fondi per partire: un mese in moto per andare da New York a San Francisco attraversando la vastità americana e assaporando la libertà. Alexo è rientrato dal viaggio con 10.000 foto. Non sorprende quindi che gli ci sia voluto quasi un anno per selezionarle e metterle insieme nel libro in questi giorni in uscita con il titolo Dear America. From New York to San Francisco, un viaggio in bianco e nero sulle strade dell’America profonda.
In sella a una moto per un mese alla scoperta dell’America più autentica. Cosa ti ha spinto a questa impresa?

L’itinerario del viaggio di Alexo
Vivo in questo paese ormai da anni e mi sono reso conto che l’America vive prevalentemente sulle sue due coste, e anche la mia fotografia fino a questo viaggio si era concentrata solo sulle due coste, anche perché ho vissuto a New York e a Los Angeles. Ma nel mezzo c’è un territorio vastissimo e poco conosciuto. Era quel territorio che mi interessava in particolar modo esplorare. Con questo viaggio ho avuto modo di raccontare un’altra America riconnettendo le due coste attraverso la chiave del reportage, fotografando gente e luoghi.
Cosa ti è rimasto più impresso del tuo viaggio? Quali i luoghi più interessanti che hai visto?
Difficile fare una classifica. Un posto che mi è piaciuto moltissimo, per via del mio interesse per l’architettura, è la casa sulla roccia di Frank Lloyd Wright a Taliesin: un luogo di grandissima bellezza, uno spazio organico perfettamente inserito nel paesaggio. Forse il Wyoming è lo stato che mi è piaciuto di più: racchiude quell’idea del Far West di quando sei bambino. Vedi ancora questa gente che se ne va in giro con cappelli da cowboy e la pistola e partecipa ai rodeo. Lo spirito vero dell’America è lì e te lo ritrovi davanti. Poi ho visto anche tanta natura, impressionante e grandiosa, dal Montana allo Yellowstone, dalla Monument Valley al Badlands South Dakota: paesaggi spettacolari.
Riuscire a racchiudere tutto questo nelle tue immagini non deve essere stato facile. Ti sei mai sentito sopraffatto?
La vastità dell’America la cogli quando sei lì, solo, nel mezzo del niente. E scopri anche i limiti del mezzo fotografico perché, per quanto bravo tu possa essere, le tue immagini non riusciranno mai a rendere la sensazione di trovarsi lì. È impossibile per la macchina fotografica catturare quella vastità.
In fotografia ci sono diverse scuole di pensiero. C’è chi ritiene che il fotografo debba avvicinarsi al suo soggetto, familiarizzare, conoscerlo, e chi crede invece che meno contatti ci sono meglio sia per il risultato finale. Qual è stato il tuo approccio a luoghi e persone? Hai interagito con la gente del posto chiedendo di fare foto o hai catturato quello che vedevi?
Facendo questo giro in un mese, di fatto passi molto tempo negli spostamenti. Quindi ho sviluppato una tecnica per fare foto dalla moto: togliendo le mani dal manubrio e mantenendo la velocità costante, di modo che la moto restasse stabile, potevo fare foto senza dovermi fermare. Quindi immagini assolutamente catturate. No, non credo che sia necessario interagire con i tuoi soggetti quando scatti le foto, anzi. Credo che per non rovinarne l’autenticità sia meglio non far sentire la propria presenza. Riesci così a catturare la realtà e a fare uno scatto più veritiero. Ovviamente non con un atteggiamento da paparazzo, ma cercando sempre di essere rispettosi dei luoghi e delle persone.
Perché hai scelto il bianco e nero?
Un po’ perché amo il bianco e nero in generale e un po’ perché ho l’impressione che l’America interna non sia cambiata. Ho fatto degli scatti che potrebbero benissimo essere stati fatti 30 anni fa. Il bianco e nero riesce a trasferire alla foto quell’universalità, un senso di atemporalità.
President Lincoln, Mount Rushmore, SD
Un italiano nel mezzo della vastità americana. Ritieni che il tuo background culturale ti abbia fatto vivere quell’esperienza in un modo particolare?
L’italiano a mio avviso ha l’esplorazione del DNA. Poi io sono anche un’italiano atipico perché vengo da terre di confine e da una cultura mista. Ma in questo momento andarsene in giro per il mondo ed essere italiano non è proprio un vanto. Dal punto di vista del territorio, il confronto nelle differenze è inevitabile: l’Italia è bellissima nella sua densità mentre in America la bellezza è quella dell’espansione, del grandioso, del vasto, dell’assenza di confini che ti dà quel senso di libertà irripetibile. E questo colpisce anche venendo da New York dove tutto è compresso in un’isola.
Un viaggio non solo geografico, il tuo. La solitudine è mai stata un problema durante quel mese?
Sono partito anche per capire delle cose di me stesso. In realtà il viaggio ha fatto aumentare la mia indecisione su quello che voglio fare nel futuro. La solitudine non è stata un problema, anzi, è stato bellissimo. Ti aiuta a crescere. Certo a volte ti trovi in situazioni estreme e senti la paura. Per esempio dallo Utah in poi ho beccato sempre temporali violentissimi, ogni giorno. Vedi la tempesta da lontano, vedi i lampi e sai che ci dovrai entrare. Non puoi fermarti. L’unica cosa che puoi fare è sperare che non grandini. E poi entri nella tempesta e non vedi niente per miglia. Quando sei lì, nel nulla, dentro una tempesta, sulla tua moto, ti senti piccolissimo. E scopri di che pasta sei fatto.
Giovane cowboy: Rodeo, Jackson Hole, WY.
Il momento più difficile?
Quando ero nel deserto Kingman, diretto a Las Vegas, ho percorso 88 miglia all’una di pomeriggio La temperatura era assurda. E non c’era niente intorno per miglia e miglia. Anche se bevi continui a sentirti come in una sauna secca. Il cervello ti manda segnali di pericolo e ti crea una sensazione di paura. Però allo stesso tempo quella è la forza che ti fa andare avanti. Per un attimo pensi di non farcela, ma poi c’è un altra parte del tuo cervello che ti dice: no, non puoi fermarti, ce la devi fare, non puoi mollare ora. Pensavo ai soldati in Africa durante le Seconda Guerra mondiale. Pensavo a chi ce l’aveva fatta in situazioni più difficili… Quando sono arrivato a Las Vegas ho bevuto per tre ore ininterrottamente.
Perché hai scelto di viaggiare in moto?
Perché amo la moto da sempre. E anche perché ti dà il massimo delle libertà pur rimanendo attaccati a terra. Sei parte del paesaggio, sei dentro le cose. La cosa divertente è che io giravo con una moto poco equipaggiata e la gente, vedendo la targa, mi fermava per chiedermi se davvero ero venuto fin da New York con quella moto che è una moto relativamente piccola e senza parabrezza… cosa per loro infattibile. Sembrava impossibile perché le loro moto sono super accessoriate, sono come salotti, divani con le ruote…
Ed è andato tutto liscio? Non hai mai avuto problemi con la moto?
Una volta sono uscito di strada sulla Monument Valley. Sono caduto, ma per fortuna non c’era niente e nessuno sulla strada, quindi poco male…

Uomo con barba: John of Beatty’s flea market, Beatty. NV
La cosa più strana o divertente che ti è capitata?
Ho incontrato parecchie persone interessanti: un ragazzo che viaggiava da Phoenix a Seattle e poi in Alaska per spargere le ceneri di un amico. E poi nella Monument Valley ho incontrato degli indiani che mi hanno offerto ospitalità nella loro baracca e sono stati davvero gentilissimi. Forse la cosa più divertente è stata quando nel deserto del Nevada, aspettando che passasse una delle tante tempeste, mi sono fermato a mangiare un boccone in una stazione di benzina che aveva di fianco un diner che aveva di fianco un bordello. A un certo punto arriva la maitresse e dice che offrivano una visita guidata gratuita del bordello: mi sono aggregato al gruppo e ci hanno fatto visitare le stanze, comprese quelle con tanto di attrezzature tipo catene e simili, spiegando nel dettaglio cosa si faceva qui e cosa si faceva lì. Sembrava di essere al museo, ma la sensazione era surreale…
Dopo un mese nella selvaggia vastità americana come è stato tornare a New York?
All’inizio, per le prime due settimane, mi sentivo di nuovo un turista. Ricominciavo a guardare le cose con occhi nuovi. New York è una città da cui ogni tanto ti devi prendere una pausa…
Che rapporto hai con questa città?
Abbiamo avuto 13 anni di relazione intensa e oggi il rapporto è come quello di una coppia di amanti dopo anni insieme. Non voglio dire che siamo in crisi, ma inizio a vedere delle cose che prima non vedevo… E poi dopo tanti anni uno magari pensa che tutto sia a New York, che New York sia tutto, ma questo è un miraggio. E magari invece è tutto fuori New York.

La copertina del libro Dear America
In questi giorni è uscito il tuo libro su questo viaggio. Con che criterio hai selezionato le foto e organizzato il materiale?
Il libro ha un taglio giornalistico. Nonostante la bellezza delle immagini, non volevo che le foto avessero una valenza puramente estetica. E l’ordine delle immagini segue il percorso fatto nel mese in moto passando da uno stato all’altro.
Il prossimo progetto?
Voglio fare un altro viaggio in moto, ma questa volta da New York a Buenos Aires: una pazzia. Dovrò passare in posti piuttosto pericolosi e difficili quindi dovrò prepararmi bene. Vedremo…
Dear America. From New York to San Francisco è disponibile in 3 formati: standard, deluxe ed ebook.
Per vedere altri lavori di Alexo Wandael potete visitare il suo sito Internet o la sua pagina Facebook.