Un premio l’ha riportarla a New York ed è stato un piacevole ritorno. Carlotta Corradi si trova in questi giorni in città per la rappresentazione del suo testo all’interno del festival In Scena! e per ricevere il premio Mario Fratti, vinto con quello stesso testo.
È il primo anno per il premio in onore del grande drammaturgo italiano da anni cittadino di New York e la prima a riceverlo è, appunto, Carlotta Corradi, classe 1980, regista e autrice teatrale e documentarista romana. Il testo, dal titolo Via dei Capocci, racconta uno spaccato del rione Monti di Roma dove si incontrano Lina, anziana affittacamere, e Irina, ex prostituta dell’Est in cerca di lavoro come addetta alle pulizie. Alle scene del presente si alternano scene ambientate in un bordello degli anni 50 dove due giovanissime prostitute trovano il loro modo di sopravvivere. Il testo, che verrà rappresentato con un reading al Thetre for The New City lunedì 23, prende ispirazione dalle storie e le leggende narrate dagli abitanti del quartiere e dalla lettura del libro Lettere Dalle Case Chiuse curato da Lina Merlin e edito nel 1955.
Nell’attesa di vedere il suo testo a teatro e di vederla ricevere il premio Mario Fratti, abbiamo chiesto a Carlotta di prendersi una pausa dall’immersione nell’estate newyorchese, per concederci una chiacchierata.
Che effetto fa trovarsi a New York per ricevere un premio per il tuo lavoro?
New York per me è un piacevole ritorno. C’è stato un periodo della mia vita in cui venivo spesso per lavoro, un paio di volte l’anno perché stavo girando dei documentari su degli artisti italiani che a New York sono diventati famosi. Ora era dal 2007 che non venivo e questa è una gran bella occasione per tornare in questa città che amo. E inaspettata. La notizia della vittoria del premio l’ho ricevuta via email. Erano le 8 del mattino ed ero ancora mezza addormentata, ho trovato questa email e l’ho letta con un occhio solo per il sonno: l’ho dovuta rileggere tre volte per capire cosa diceva. Mi ha fatto molto effetto che fosse proprio un premio newyorchese perché New York mi era rimasta nel cuore e non avevo più avuto modo di venirci.
Conoscevi Mario Fratti?
No, non lo conoscevo professionalmente, ma nel 2004, la prima volta che venni a New York, stavo facendo dei corsi alla New York Film Academy e stavo lavorando su un documentario su Vincenzo Amato, attore e scultore italiano che vive qui. Fu la sua fidanzata a nominarmi Mario Fratti, dicendomi che, visto che mi interessava il teatro, avrei dovuto incontrarlo. Poi però non ci fu tempo di farmelo presentare e rimase soltanto un nome. Quando poi lessi di questo premio pensai: ah, il famoso Mario Fratti! Mi sembrò una bella coincidenza, ma poi addirittura vincere….
Oltre ad essere autrice e regista teatrale, tu sei anche una documentarista. Quale di questi due mondi ti rappresenta di più?
Io vengo dal teatro che è la mia vera grande passione. Ho iniziato che ero ancora al liceo e facevamo questi corsi di teatro a scuola dove ebbi la fortuna di avere come insegnante Thomas Otto Zinzi, che tra l’altro è anche lui un italo-americano, che, oltre ad essere attore, è drammaturgo professionista. Dal laboratorio teatrale sono passata subito a scrivere e a fare regie insieme a lui. L’ho seguito per 10 anni. Nel frattempo mi sono laureata in teatro. Poi però mi era venuto una specie di rifiuto per il teatro, legato soprattutto a quel senso di depressione da fine degli spettacoli: tu metti anima e cuore in uno spettacolo, poi finisce e non rimane niente. Fu allora che venni a New York per frequentare dei corsi alla Film Academy. Volevo provare a fare qualcosa che potevo fare da sola senza dover sempre mettere insieme gli attori eccetera e poi volevo qualcosa che restasse. Così iniziai a fare documentari e fu in effetti una buona scelta perché con il video riesco a mantenermi più facilmente. Però la mia passione resta il teatro cui poi sono subito tornata con Lipstick, il primo testo scritto e diretto da me. E il grande amore è riesploso: non puoi scappare dalla passione per il teatro.
Parte della tua esperienza e formazione si è svolta in collaborazione con il Teatro Valle, il più antico teatro di Roma, occupato dal 2011 e da allora gestito da un attivissimo collettivo di artisti. Puoi raccontarci di quell’esperienza?

Carlotta Corradi al teatro Valle. Foto: Tiziana Tomasulo
All’inizio mi avvicinai al Valle subito dopo l’occupazione: ero andata a diversi spettacoli e alle serate organizzate per sostenere l’occupazione. Poi però, per un anno circa, non lo frequentai più, anche un po’ perché da fuori c’è la sensazione che ci sia un gruppo già consolidato e che “i nuovi” non sappiano dove collocarsi. Poi però pubblicarono questo bando per un laboratorio di scrittura teatrale con Fausto Paravidino e io volevo assolutamente partecipare. Mandai la domanda e fui accettata. Nel luglio 2012 iniziammo questo seminario e da quel momento mi sono innamorata della realtà del Valle. Mi sono resa conto che c’è tutto un mondo di volontari che fanno ogni tipo di lavoro, creativo e non, che si dividono i compiti e sono super efficienti. C’è sempre qualcuno che ti può aiutare a fare qualcosa e nascono bellissime collaborazioni. Per esempio il seminario che ho seguito di scrittura teatrale ha dato poi vita a un gruppo permanente di scrittura: ci vediamo regolarmente e ognuno porta avanti il suo lavoro. L’anno scorso, proprio attraverso quel gruppo, ho scritto un testo che si chiama Peli che è stato messo in scena ed è andato molto bene anche grazie alla regia di Veronica Cruciani. Così ho pensato di chiedere al Valle se volevano inserirlo nella loro stagione e ho dovuto combattere perché loro generalmente non amano inserire in cartellone cose nate dal Valle stesso. Ma alla fine hanno acconsentito ed è stata una bellissima esperienza. Loro fanno davvero le cose con amore e ben fatte. Girando altri teatri ti rendi conto della differenza: spesso l’amore si perde, mentre al Valle è ancora viva la passione autentica per il teatro.
Cosa può imparare dal Valle il sistema teatrale italiano?
Il sistema in sé è migliore rispetto ad altri teatri italiani. Come organizzazione della programmazione, seguono più un modello diffuso tra i teatri europei che combina musica, cinema, danza, feste, bar. L’idea è che tute queste attività parallele possono portare la gente a teatro che diventa un posto dove puoi andare la sera e c’è sempre qualcosa. La vocazione del Valle è quella di creare un teatro aperto 24 ore, che fosse anche un luogo dove ci si possono scambiare idee, sia con gli altri artisti che con il pubblico. L’innovazione è enorme. E poi c’è questa grande attenzione alla formazione. Di solito la formazione nell’ambito del teatro o costa l’ira di dio o si tratta di corsi tenuti da gente che non ha chissà quale esperienza professionale. Loro invece, in tanti campi, anche in quello delle maestranze tecniche, offrono attività gratuite e con insegnanti altamente qualificati. Vai lì, non paghi niente e trovi un maestro che ti insegna tutto quello che dovresti sapere. Ovviamente tutto questo non può rappresentare un modello riproducibile finché si basa sul lavoro gratuito di tanti volontari che si impegnano da tre anni. Per questo ora stanno aspettando il riconoscimento della fondazione Teatro Valle in modo che possano anche accedere a dei fondi.
Lavorare nell’ambito della creatività in Italia e riuscire a mantenersi. È possibile?
È veramente difficile. Sono qui ora perché quest’anno qualcosa dal cielo mi ha detto di continuare e ho ottenuto delle belle soddisfazioni, sia con lo spettacolo che ha ricevuto critiche sorprendenti, sia con questo premio che mi fa particolarmente piacere perché è anche un riconoscimento, ti fa sentire che qualcuno si è accorto del tuo lavoro, in un modo anche minimamente ufficiale. Queste sono cose che ti aiutano ad andare avanti, come se qualcuno ti mettesse una mano sulla spalla e ti dicesse: “Vai avanti, stai andando bene”. Ma ho ancora tanta strada da fare e a volte diventa molto faticoso. Il problema è anche che il mondo commerciale impone uno standard. Io vedo tante cose a teatro che non mi piacciono: quelle che funzionano a livello di pubblico e di incassi sono cose che non considero neanche teatro, che potrebbero stare benissimo in televisione e che non hanno bisogno di quello spazio, che è uno spazio magico che non può essere usato per qualsiasi cosa… E d’altro canto il teatro a volte è anche noioso, vecchio.
Soluzioni?
A volte penso che l’unica vera possibilità sia il caro vecchio mecenatismo, ma purtroppo non esiste più. Bisognerebbe puntare sui talenti e cercare di aiutarli. Perché poi fare tutto da soli toglie spazio alla creatività: finisce che il 20 per cento delle energie va nell’arte e il resto va in burocrazia, organizzazione, amministrazione. Mancano figure professionali di questo tipo in Italia. E poi ovviamente manca la base: i fondi, dei finanziamenti pubblici veri, reali, e non quelli che finiscono ad andare sempre agli stessi che fanno cose che si ripetono da anni. Sostenere i talenti veri.
Via dei Capocci
di Carlotta Corradi – Mario Fratti Award Winner
Lunedì 23 giugno, 7pm, Theater for the New City, 155 1st Avenue, New York