“Non partite dal presupposto che chi vive a New York 'è fortunato e/o da invidiare'. Quelli che ci sono finiti per puro caso o fortuna sono pochi. Tutti gli altri hanno fatto i salti mortali nonché un sacco di rinunce. Siate pronti al compromesso e non piangetevi addosso alle prime difficoltà. Il pragmatismo deve vincere su tutto”.
A parlare è Andrea Vitali, il nome è ambigenere (cioè maschile e femminile insieme) e in Italia è tipicamente maschile. Salvo in questo caso perché rivela una giovane 33enne di Fano dal carattere forte, indipendente, carismatico e pragmatico, responsabile commerciale per un'azienda di moda. Da 9 anni a New York. Per lei galeotta fu una borsa di studio che la portò a 24 anni Oltreoceano e alla scoperta di se stessa.
"Il viaggio più lungo è il viaggio interiore". Dag Hammarskjöld
Andrea l'ho incontrata fuori dal suo ufficio nella zona di Canal Street, la Chinatown newyorchese. Pochi minuti di attesa e vedo arrivare una ragazza bionda un po' rigida. Ops! Era lei ed era bloccata dal torcicollo. Nonostante la modalità robot, andiamo verso il ristorante dove chiacchierare con calma. Durante il tragitto Andrea inizia a raccontarsi. Ha una parlantina coinvolgente degna del miglior speaker radiofonico che ti può intrattenere solo con la voce e le parole.
Mi racconta che fin da quand’era bambina era affascinata da New York. Le dava un’idea di inspiegabile comfort. Mentre frequentava economia poco prima di laurearsi ha vinto una borsa di studio per gli USA. Accettare oppure no? Andrea naturalmente accettò. "Verso New York ho sempre avvertito una forma di attaccamento empatico pur non essendoci mai stata prima. Farei fatica a dare una motivazione razionale, ma quando si è presentata la possibilità della scholarship mi è sembrato stupido non coglierla subito". Chi avrebbe rinunciato? Solo chi ha paura di rimettersi in gioco lasciandosi alle spalle sicurezze e comodità di casa o quei legami di cui poi con lontananza comprendi il vero valore.
Presa la decisione, Andrea parte senza sapere neppure cosa sarebbe andata a fare, né dove. “Poteva essere il Missouri come il Kansas, l’importante era la scoperta di qualcosa di nuovo, in quel momento. Scelte di questo tipo vanno fatte con la consapevolezza di fare un salto nel vuoto, ma soprattutto con l’accettazione e la volontà di resettare completamente la propria forma mentis per recepire tutto quello che un Paese diverso dal tuo può trasmetterti. Una partenza di questo tipo significa scendere a patti su tante cose che normalmente si danno per scontate”.
Dopo due semestri in un college del New Jersey e un lavoro come commerciale estero per una società di distribuzione di componenti per computer gli viene proposto di rimanere a tempo indeterminato. Un’altra decisone da prendere. Restare o tornare in Italia? La risposta è evidente. Restare. Un po’ per curiosità e un po’ per sfida. Dopo qualche anno è passata al mondo delle calzature lavorando per una piccola società americana di scarpe artigianali prodotte in Italia. Qui seguiva sia la parte commerciale che quella di sviluppo e produzione. Tre anni fa è stata contattata da un headhunter e da allora lavora per un'azienda di moda di e-commerce come responsabile commerciale per il Nord America.
Affrontare la decisione di restare nella City non riguarda il coraggio perché, secondo Andrea, ci vuole coraggio sia a partire che a restare. “Il coraggio sta nella consapevolezza e nell’accettazione delle conseguenze a cui si va incontro, delle rinunce a cui si è disposti in un caso e nell’altro, e soprattutto del fatto che la scelta fatta potrebbe essere quella sbagliata”.
A volte il dubbio del “chi me l’ha fatto fare” bussa nella sua testa. E Andrea trova spesso la risposta spesso nelle lamentele degli amici in Italia che la chiamano e si sfogano per gli stessi motivi per cui lei stessa è frustrata.
Nonostante questi momenti di perplessità, nonostante avesse vinto una borsa di studio e intrapreso un lavoro, non è stato tutto semplice. Il primo ostacolo era la lingua. Quando è arrivata viveva in un college in cui lei era l’unica italiana. Capire e farsi capire è stata un’impresa titanica. Ad aiutarla è stata la convivenza costante con americani proseguita anche dopo il college. Andrea, infatti, ha avuto sempre coinquilini americani. “È l’unico vero modo per imparare bene la lingua e provare a perdere quell’accento italiano da Totò all’estero”.
Il secondo ostacolo, una volta uscita dal college è stato la ricerca dell’appartamento. Un’avventura degna di Indiana Jones: “Gli appartamenti newyorchesi possono essere considerati tali solo a New York. Trapiantati da qualsiasi altra parte sarebbero definiti in modo molto meno poetico. Gli affitti sono carissimi e la ricerca della casa dipende dal livello di disponibilità economica: bassa o media. Nel primo caso si cerca su Craigslist.com, spesso in condivisione con altre persone: questo può essere considerato anche un simpatico esperimento sociologico. Se sei un po’ picky e non ti accontenti del seminterrato senza finestre con letto soppalcato e cucina kosher, ci potrebbe volere un po’ prima di trovare la casa e la compagnia giusta. Nel mezzo stanno una serie di incontri surreali degni di un film di Tarantino. Nel secondo caso gli incontri di potenziali roommates e/o serial killer sono rimpiazzati dagli incontri con broker improbabili che provano a venderti lo stesso seminterrato di prima come “the new thing on the market” e dove “senza finestre” è fantastico: così si dorme meglio, al mattino il sole non ti disturba il sonno – ti dicono. Se poi il seminterrato lo vuoi con il classico mattoncino delle case di Friends, allora sono almeno 200 dollari in più al mese. Se vuoi l’ascensore allora sei veramente uno snob e ti chiedo anche un mese di anticipo in più, per punizione”. Chi sceglie di vivere a New York non può esentarsi dalla ricerca dell’appartamento. Una volta iniziata entri in un mondo surreale dove l’impossibile diventa possibile.
"Se pensi che una cosa sia impossibile, lo diventerà". Bruce Lee
Poi inizia a parlarmi di alcuni italiani a New York che criticano abitudini e consumi americani. Dicendomi che molti italiani o comunque europei dopo qualche settimana nella City iniziano ad avere giudizi molto forti sul modo di vita americano: “Sembra un esempio molto stupido, ma la brioche con cappuccino non è LA colazione giusta. È la TUA colazione, fino a ieri: da oggi impara ad accettare che la colazione può essere la brioche con il cappuccino, ma anche l’uovo con la pancetta, o il riso con il pesce. Solo perché a casa tua si faceva in un modo non vuol dire che quello sia il migliore dei modi possibili. Per poterti fare un’opinione critica devi prima arrivare con la testa svuotata della tua “educazione” o rischierai sempre di vedere le cose con il filtro delle tue abitudini, convinzioni culturali, e in finale, dei tuoi pregiudizi, positivi o negativi che siano. Se non si è disposti ad affrontare la novità è meglio tornarsene subito a casa propria”
Mentre parlavamo degli italiani a New York, interviene, senza invito, un uomo seduto accanto a noi che obietta sulle parole di Andrea. Inizia una discussione accesa tra i due. Ascolto esterrefatta e divertita. Entrambi dicevano la stessa cosa ma non si capivano. O meglio lui non voleva condividere il pensiero di Andrea sugli italiani che lanciano giudizi gratuiti e sul fatto che molti sono maleducati. Lei ha mantenuto la calma, sarà stato il torcicollo a fermarla dato il suo carattere passionario. Questo signore di origini napoletane, da anni a New York, continuava a replicare che gli italiani sono aperti ed educati, lui compreso. Tanto beneducato che quando é venuto il cameriere a portargli il caffè gli ha detto con tono arrogante e sgarbato "ah ciccio! Ti ho detto che voglio un caffè espresso! Questo portalo indietro".
Dopo questa piccola parentesi, Andrea ha continuato a raccontarmi la sua New York. “Qui si vive bene e male, dipende dai giorni, dalla disponibilità economica e dalle proprie aspettative. Il lato positivo è che puoi fare quello che ti pare. Quando ti pare. Non devi giustificarti con nessuno e puoi cambiare idea a piacimento. Il lato negativo è che le persone ti dimostrano tanto entusiasmo con la stessa facilità con cui si dimenticano come ti chiami e la natura dei rapporti è spesso molto superficiale. Il costo della vita è alto, soprattutto per le attività classiche come le uscite a cena, drink, eccetera (oltre all’affitto & co). Ma ci sono anche tantissime possibilità low-cost o free. La scelta è vastissima. Bisogna organizzarsi bene e con largo anticipo. Central Park è un anti stress naturale: il rumore del traffico sparisce completamente. D’estate è l’unico rifugio dove trovare una temperatura al di sotto dell’effetto serra. L’unica cosa che manca veramente è il mare: i newyorchesi vanno agli Hamptons, ma se sei cresciuto al mare come me (e Fano non è certo la Sardegna) capisci che è meglio rimanere nell’East Village.”
In questi nove anni a New York ci sono stati anche momenti di malinconia. Per superarli non esiste una ricetta. Ogni volta fa storia a sé. “A volte ti basta una telefonata, altre un episodio bizzarro in metropolitana, altre volte ancora, semplicemente, devi aspettare chepassi. Il giorno in cui non vorrò più accettare i compromessi di New York sarà il giorno che me ne andrò per iniziare una serie di compromessi diversi da un’altra parte”.
Andrea dagli americani ha imparato la forza di rialzarsi e il pragmatismo sostituito alla lamentela:“Gli americani tendono a piangersi molto poco addosso. Anche nel 2008, dopo il tracollo finanziario e il primo stato di choc, la gente si è inventata di tutto pur di lavorare. Non ho mai sentito nessuno dire 'è colpa di'. L’approccio è scientifico: se c’è un problema, c’è anche un modo per risolverlo. Tanto vale iniziare da subito e perdere poco tempo. In Italia lo vedono come un approccio semplicistico. Io lo vedo come l’unica via d’uscita da una situazione che non ti fa stare bene. In Italia invece ho notato (in me stessa in primis) un velato gusto nel crogiolarsi nelle proprie “sfortune” e nel trovare scuse improbabili per non dover mettersi troppo in gioco”.
In ultimo abbiamo parlato delle relazioni sentimentali, roba da Sex and the City: “Le persone sono iperprogrammate. Devi prenotargli l’agenda per strappare un’uscita a cena. Ognuno ha mille impegni con mille persone diverse. Oggi ti conosco e sei un grande, domani ne conosco altri dieci come te e uno vale l’altro. I rapporti sono in genere abbastanza superficiali, c’é un forte entusiasmo iniziale ma con la stessa facilità le persone si prendono e si lasciano di continuo”. Da questo punto di vista Andrea è stata fortunata perché ha creato un suo giro di amicizie ristrette su cui può contare. A New York ci si può sentire molto soli: “Ci sono giorni in cui magari non parli con nessuno, per tua scelta o meno. Va accettato. Se ti crea problemi, non è la città giusta per vivere così a lungo”.
E come sono gli uomini americani? Andrea, reduce da una convivenza di tre anni con un americano, si lancia in una descrizione minuziosa quanto divertente delle relazioni sentimentali a New York: “L'uomo newyorchese è molto simile allo stereotipo che gli è stato affibbiato, ovvero egocentrico, arrogante e privo di contenuti che non siano legati al proprio lavoro. Soprattutto tra bankers e lawyers che costituiscono ancora, purtroppo, una buona fetta di popolazione. Spesso circondati da donne bellissime tra cui si arrogano il diritto di poter scegliere a piacimento perché la disperazione di arrivare a 30 anni e non essere sposata in USA è molto più forte che in Italia. Qualche compromesso va pure accettato! Poi c'è l'uomo hipster ('uomo' in questo caso è una licenza poetica), le caratteristiche sono le stesse di cui sopra, ma sostituiamo la parola lavoro con la parola arte. L'hipster non lavora. Purtroppo non è uno starving artist di quelli veri, che oggi mangiano e domani chi lo sa, ma è un artist mantenuto dai genitori, e mentre cerca di capire se è meno bravo a fare i disegni sui cerchi di grano piuttosto che a remixare musica già sentita, passa le sue giornate a ricoprirti di parole piene di spessore, quali 'wassup?', o anche 'hey'. Entrambe le categorie hanno una cosa in comune: non ne capiscono nulla di alcolici. Nel senso che qualsiasi cosa contenga alcol per loro va bene, a prescindere dall'orario. Sono le 5 del pomeriggio, hai sete e l'unica cosa che trovi è una bottiglia di vodka? Sure! Poi vai a cena bevi una birretta seguita dal vino e magari da un cocktail zuccheroso che non ce lo vogliamo mica negare? Nel mezzo ci sta un ibrido di personaggi improbabili, dalla spina dorsale dubbia”.
Nonostante questi forti deterrenti, Andrea è riuscita ad avere una relazione di tre anni con un americano, convivenza compresa. Come ci si può immaginare non è finita bene. Le divergenze culturali erano forti. “La classica risposta in un momento di sconforto è 'you should speak about this to someone, someone you pay for it because he is better qualified than me', ovvero l'analista”. In effetti, come non pensarci subito? Perché perdere tempo a raccontare un problema al tuo fidanzato quando puoi sganciare $200 ad uno sconosciuto per ascoltare i tuoi problemi per mezz'ora? Un approccio molto diffuso nella City, anche se non è la regola. Andrea ha notato che molte persone hanno la tendenza a voler confinare tutto in scatole predefinite e gestire anche le relazioni umane in modo semi-robotico. “Se hai un problema ti ascoltano una o due volte, ti danno la loro opinione e se quella non basta è ora dell'analista, just move on e.. fattela passare. Manca totalmente l'empatia. Ho sempre avuto la sensazione che i rapporti rimanessero sempre ad un livello troppo superficiale, anche a fronte di un'apparenza più seria. Come quella della mia convivenza. Per racchiudere tutto in una massima, mia per altro, il maschio americano riesce ad esercitare su di me lo stesso fascino che una fettina di fegato alla veneziana potrebbe avere su un fondamentalista vegano”.