La giustizia torna al centro del confronto politico con l’approvazione, in prima lettura anche al Senato, del disegno di legge costituzionale che introduce la separazione delle carriere tra magistratura giudicante (giudici) e requirente (pubblici ministeri). Dopo il via libera della Camera a gennaio, la riforma segna un passaggio storico nell’architettura del sistema giudiziario, affrontando una questione a lungo dibattuta ma mai tradotta in una revisione costituzionale. Si tratta di un cambiamento profondo, che solleva interrogativi e alimenta tensioni tra politica e magistratura, mentre i cittadini si confrontano con un assetto istituzionale in evoluzione.
L’obiettivo del provvedimento è chiaro: stabilire una netta separazione tra i ruoli dei magistrati. Da un lato, i giudici pronunciano le sentenze; dall’altro, i pubblici ministeri rappresentano l’accusa. Attualmente, entrambi fanno parte dello stesso ordine e condividono un percorso di formazione unitario, con la possibilità, prima della riforma Cartabia del 2022, di passare da una funzione all’altra fino a quattro volte nel corso della carriera. La riforma Cartabia ha, però, introdotto una limitazione, consentendo un solo passaggio nei primi dieci anni di servizio.
La proposta costituzionale punta ora a introdurre una separazione irreversibile: all’ingresso in magistratura si dovrà scegliere tra il ruolo di giudice e pubblico ministero, senza possibilità di successivi cambiamenti. A sostegno della riforma, il Governo invoca l’esigenza di rafforzare il principio del “giudice terzo”, libero da condizionamenti derivanti da percorsi professionali condivisi che potrebbero incidere sull’imparzialità. Per questo motivo, la proposta prevede la creazione di due Consigli Superiori della Magistratura (CSM) distinti, uno per i giudici e uno per i pubblici ministeri. Entrambi presieduti dal Presidente della Repubblica e comprendenti membri di diritto come il Primo Presidente e il Procuratore Generale della Cassazione.
La novità più controversa riguarda il sistema di selezione dei componenti, che avverrà tramite sorteggio. Criterio adottato con l’obiettivo di superare le “correnti” interne all’Associazione Nazionale Magistrati (ANM), accusate di aver favorito negli anni accordi tra gruppi organizzati per influenzare nomine e carriere. Anche i membri “laici” dei nuovi Consigli, individuati tra professori di diritto e avvocati con almeno quindici anni di esercizio, saranno sorteggiati da un elenco predisposto dal Parlamento.
Il Governo sostiene che questa soluzione aumenterà la trasparenza e ridurrà le pratiche spartitorie del passato. Tuttavia, la proposta solleva forti riserve riguardo al rispetto delle garanzie costituzionali. L’ANM denuncia la perdita del diritto dei magistrati di eleggere in modo democratico i propri rappresentanti, accusando il nuovo meccanismo di essere arbitrario e potenzialmente lesivo dell’autonomia della magistratura.
Un’altra innovazione riguarda la giustizia disciplinare: la competenza sarà trasferita dal Consiglio Superiore della Magistratura a un nuovo organo, l’Alta Corte disciplinare, composta da 15 membri. Di questi, alcuni saranno nominati dal Capo dello Stato e altri estratti a sorte da un elenco predisposto dal Parlamento. Per i rappresentanti della magistratura, il sorteggio avverrà tra coloro che possiedono specifici requisiti. L’ANM accusa l’Esecutivo di voler istituire un “tribunale speciale” per la magistratura ordinaria, in contrasto con il principio di uguaglianza davanti alla legge.
La preoccupazione è che, sotto l’etichetta della riforma, si nasconda l’intento di indebolire l’indipendenza dei magistrati, rendendoli più suscettibili alle influenze politiche.

La riforma non arriva inaspettata: nel 2022, un referendum promosso dalla Lega per vietare i passaggi tra le funzioni aveva ottenuto il 74% dei consensi, ma il mancato raggiungimento del quorum ne determinò l’invalidità. L’attuale maggioranza parlamentare, composta da Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia e Noi Moderati, ha deciso di portare avanti la riforma, prevista nel proprio programma elettorale, attraverso una revisione costituzionale. Le opposizioni – Partito Democratico, Movimento 5 Stelle e l’Alleanza Verdi-Sinistra – si sono dichiarate contrarie, mentre Azione, Più Europa e Italia Viva hanno adottato posizioni più articolate.
Questa divisione riflette non solo un confronto politico, ma anche una diversa visione sull’equilibrio tra i poteri e sul ruolo della giustizia in una democrazia. Per alcuni, separare le carriere garantisce un processo più equo; per altri, riduce l’indipendenza a favore di un controllo politico sull’ordine giudiziario.
Il percorso verso l’approvazione della riforma è tutt’altro che concluso. Trattandosi di modifiche costituzionali, il testo dovrà essere approvato con due votazioni successive da ciascuna Camera, a distanza di almeno tre mesi. Se non si raggiunge la maggioranza dei due terzi, sarà necessario un referendum confermativo. Anche dopo l’approvazione definitiva, la riforma non produrrà effetti immediati. L’articolo 8 stabilisce che, entro un anno dall’entrata in vigore, Parlamento e Governo dovranno intervenire con provvedimenti attuativi sull’ordinamento giudiziario e sulla giurisdizione disciplinare. Sarà necessario riscrivere la legge del 1958 sul CSM e rivedere i criteri riguardanti carriere, nomine, trasferimenti e formazione dei magistrati. In sintesi, se la riforma supererà tutte le fasi parlamentari e referendarie, sarà solo il primo passo, seguito da un lungo processo di attuazione normativa.
In un sistema giudiziario già segnato da lentezze e criticità, ogni riforma richiede prudenza e confronto per evitare squilibri istituzionali. Se l’obiettivo è rafforzare la fiducia dei cittadini nella giustizia, la separazione delle carriere dovrà essere accompagnata da garanzie, controlli e tutele costituzionali per tradursi in un cambiamento utile, equilibrato e duraturo.