Le storie si incrociano con i ricordi e con il dolore della nostra impotenza ma forse serve tutto, anche raccontare quello che hai visto tanto tempo fa per capire quanto si può far male, oltre le bombe la fame e la sete. Dunque parliamo degli asinelli a Gaza. La notizia si perde tra le altre ma ha del surreale, se non fosse che tutto oggi a Gaza sembra il trionfo del male, senza più limiti al suo abisso, mescolando propaganda e buone intenzioni.
La storia la racconta Michele Giorgio su Il manifesto. Sono decine gli animali rastrellati dagli israeliani dopo i bombardamenti e portati via da Gaza. Si tratta di quelli feriti o dispersi -dicono- che vengono raccolti oltre confine e curati da associazioni animaliste. Alcuni addirittura trasferiti in aereo in Europa in Francia e Belgio in rifugi per animali maltrattati. Ora il surrealismo della notizia è evidente nella sua paradossale verità. Gli israeliani “buoni” salvano gli animali dalle loro stesse bombe e lasciano morire tutti gli altri perché lo scopo finale -ormai lo ha capito il mondo ma non riesce ad alzare un dito- è un deserto coperto di sale.
Ora per chi è stato anche solo una volta a Gaza ma anche per chi ha visto le immagini degli spostamenti, innumerevoli, forzati, disperati dei palestinesi di questi mesi sa che ad aiutarli, al limite delle loro forze, sono anche gli asinelli, allevati, custoditi, sfruttati sì, fino al limite, in una sorta di destino crudele che li lega ai loro padroni. Vederli tirare carretti giganti fa impressione ai nostri occhi oggi da salotto e tutto si mescola in un dolore incapace di dire e di fare alcunché. E qui arriva il ricordo che aggiunge pena alla pena, oppure no, fate voi. Agosto del 2014. Eravamo entrati a Gaza con il permesso degli israeliani. La loro scommessa era: andate pure, o giornalisti internazionali, vedrete che il nostro intervento è stato chirurgico, abbiamo colpito le basi del razzi dei Hamas e poco più. Noi siamo andati e abbiamo visto quartieri distrutti, migliaia di sfollati radunati dentro a scuole e ospedali. E attorno a questi sfollati c’erano loro, gli asinelli con i loro carretti, circondati da bambini che giocavano, fermi, aspettando di andare o di restare. Uno di quei giorni arriva l’ordine che era possibile per i palestinesi tornare a casa. Nelle famiglie si discute cosa fare, se azzardare un ritorno o restare al sicuro -a quel tempo si poteva ancora pensare così- in quella scuola dell’ONU trasformata in uno sterminato campo profughi.
Una di loro decide che sì, vale la pena di andare a vedere come sta la casa, se è stata colpita, se si può tornare. Allora ecco che arriva il momento del carretto e dell’asinello. Mi vergogno un po’ a dirlo oggi, ma allora un briciolo di speranza c’era e la storia poteva essere anche a lieto fine. Così il reporter -diciamo un po’ naïf e un po’ televisivo- chiede di salire anche lui e di andare con loro. Ora siamo in quattro sul carretto che parte lento tirato dall’asinello di famiglia.
Qualche minuto di cammino tra case risparmiate e case distrutte, poi succede questa cosa. Che l’asinello accelera all’improvviso, ritrova le forze e si mette a trottare. Senza che nessuno lo abbia incitato. Mi volto a chiedere e il padre mi dice: la nostra casa è proprio laggiù, dietro quell’angolo. Lui lo sa, l’ha riconosciuta. Così arriviamo quasi di corsa di fronte a questo edificio ancora in piedi ma con delle voragini al posto delle finestre. Salgo con la madre e la bambina al secondo piano di quello che resta, scatto foto, loro si abbracciano e si stringono l’una all’altra. Indicando il buco che ha squarciato il muro il padre mi dice, sono stati i carri armati che erano laggiù, quando ci hanno ordinato di andare via. Ora è meglio che torniamo al campo.
Sotto, l’asinello legato al carretto, aspettava, davanti alla porta di casa.