Con il licenziamento improvviso di Maurene Comey, figlia dell’ex direttore dell’FBI James Comey e assistente procuratore federale coinvolta nel team che stava istruendo il processo a Jeffrey Epstein, si è sgretolato l’ultimo strato di credibilità istituzionale intorno al caso.
Il Dipartimento di Giustizia, pur dichiarando di voler chiudere il capitolo, ha innescato un boomerang politico che ora minaccia di colpire in pieno la presidenza Trump. Non perché ci siano nuove prove contro di lui, ma perché le omissioni, i silenzi, le versioni contraddittorie e l’evidente imbarazzo hanno demolito la narrativa che lo aveva reso intoccabile agli occhi dei suoi fedelissimi.
Jeffrey Epstein, icona dell’abuso impunito e del privilegio corrotto, rappresentava per l’universo MAGA la quintessenza del “nemico”. Il simbolo di un’élite deviata, nascosta nelle stanze del potere liberal, finanziata da Soros, protetta dai Clinton, mascherata da filantropia e manovrata dal Deep State. Per anni, Trump ha alimentato queste suggestioni senza mai doverle dimostrare, lasciando che la macchina dell’indignazione che lui aveva abilmente avviato le trasformasse in verità alternative.
Ma adesso tutto si è capovolto. La macchina si è rovesciata su se stessa. E ha travolto lui.
Il licenziamento di Maureen Comey, inquirente fino a oggi in apparenza insospettabile, dà corpo all’ipotesi che qualcosa di rilevante sia stato rimosso, epurato, forse insabbiato. Il fatto che l’annuncio sia arrivato in contemporanea con la chiusura dell’indagine da parte del Dipartimento di Giustizia, che ha escluso l’esistenza della “lista degli amici”, ha alimentato l’idea che una verità scomoda sia stata deliberatamente soffocata. E che a farlo sia stato proprio quel governo che per anni aveva promesso di abbattere il sistema dall’interno.
Per i seguaci di QAnon, il corto circuito è devastante. Se Trump non è il “salvatore” che combatte segretamente la cabala dei pedofili, se è lui stesso ad archiviare Epstein, se è la sua amministrazione a smentire l’esistenza della lista, se la sua procuratrice generale Pam Bondi scompare nel nulla dopo aver mostrato faldoni vuoti… allora tutto il mito cade.
E se il mito cade, cosa resta?
Resta un presidente che insulta i suoi stessi sostenitori, li accusa di credere alle “stronzate” dei democratici, li zittisce con rabbia perché osano ricordargli le sue promesse. Resta un leader che ordina ai media conservatori di smettere di parlare del caso, che definisce Epstein “un verme di cui non vale la pena discutere” e che cancella con un post la più potente narrazione costruita attorno alla sua figura.
Il problema non è tanto quello che Trump ha fatto o non ha fatto con Epstein, ma che non riesca più a controllare la sua stessa leggenda. Le teorie del complotto, finché servivano a colpire i Clinton, Obama, Hollywood, funzionavano. Ora che mostrano crepe, ora che lo coinvolgono anche solo per omissione o ambiguità, sono diventate un peso ingestibile.
Questa volta non ci sono “cacciatori di streghe”, nessun Robert Mueller, nessun Jack Smith, nessun procuratore democratico da demonizzare. Questo scandalo nasce e muore interamente all’interno del trumpismo. È, come pochi altri casi, una ferita autoinflitta. E il fatto che Trump non sappia come reagire, oscillando tra negazione, rabbia e silenzio, è il segnale più evidente che sta perdendo il controllo della sua stessa narrativa.
Nessun politico può sopravvivere se viene messo in dubbio il racconto su cui ha costruito il consenso degli elettori. E se Epstein rappresenta il momento in cui la fantasia del “giustiziere contro il sistema” si dissolve nel realismo di un presidente che difende le stesse nebulose opacità che un tempo denunciava, allora per Trump questo non è solo uno scandalo. È una resa. Una resa narrativa, simbolica e forse anche politica.