Avevo più o meno sette o otto anni quando fui immerso nel clima di terrore. La sirena, quella generalmente usata per scandire le ore di scuola, era intensa e sembrava non fermarsi mai nell’aula della mia scuola nel Bronx, la P.S. 61. “Ragazzi, tutti sotto le scrivanie – urlava l’insegnante – le mani sugli occhi chiusi. Non dovete guardare. Se è una bomba atomica, il flash vi farà perdere la vista”. Dopo qualche anno lasciai gli Stati Uniti per l’Italia. Il clima da dottor Stranamore stava lentamente attenuandosi. La bomba spaventava tutti: Usa e Urss si mandarono segnali se non di distensione quando meno di mutua preoccupazione.
Oggi oltre mezzo secolo dopo, le potenze nucleari sono aumentate. E si parla apertamente di una possibile guerra con le armi molto più potenti e devastanti rispetto e quelle usate solo una volta degli Usa a Hiroshima e Nagasaki. “Affrontare i crescenti rischi dell’uso del nucleare nell’Asia orientale”, è il titolo di un nuovo preoccupante saggio sulla “Rivista per la pace e il disarmo nucleare”.
“L’Asia orientale sta assistendo a un aumento simultaneo delle capacità militari nazionali in tutta la regione, insieme a crescenti tensioni economiche, territoriali e politiche. Tutti questi fattori, combinati con tendenze geo-strategiche più ampie, stanno aumentando notevolmente i rischi di conflitti accidentali o intenzionali…”. Gli autori sottolineano che nella regione presa in esame ci sono quattro stati dotati di armi nucleari: Stati Uniti, Cina, Corea del Nord e Russia. E i meccanismi per mitigare e ridurre i rischi e gestire una crisi improvvisa o imprevista non hanno tenuto il passo con le sfide della regione”.
La preoccupazione degli autori non riguarda soltanto l’Estremo Oriente. Un capitolo che ci riguarda da vicino è dedicato a quanto sta accadendo in Vicino Oriente dopo l’attacco israeliano-americano all’Iran e la possibilità di un nuovo massiccio intervento più volte minacciato dal presidente Usa. Trump, ad ascoltare le sue parole, ha più volte sollecitato la ripresa dei negoziati sul nucleare con Teheran ma dal premier israeliano Netanyahu arrivano nuove minacce all’Iran. Secondo un funzionario israeliano, i servizi segreti di Tel Aviv ritengono che l’uranio arricchito immagazzinato nelle profondità del sottosuolo dell’impianto nucleare iraniano di Isfahan – uno dei tre siti colpiti dai raid aerei statunitensi del mese scorso – possa essere recuperabile. “Raggiungerlo richiederebbe un’operazione di recupero molto ardua”, ha ammesso, ma non impossibile. Le scorte iraniane erano distribuite tra Isfahan, Fordo e Natanz e, secondo Israele, non erano state spostate prima degli attacchi dell'”Operazione Martello di Mezzanotte”.
Buona parte degli analisti israeliani sostengono che dalla visita del premier Netanyahu alla Casa Bianca sono uscite poche decisioni condivise. Trump vorrebbe la fine della guerra contro i palestinesi e la ripresa dei negoziati con Teheran se non altro che per convincere l’Arabia saudita a rafforzare i suoi rapporti con l’America e aumentare gli investimenti in Usa. Una possibile tregua e la fine della mattanza israeliana dei palestinesi di Gaza slitta di giorno in giorno. Tel Aviv, l’unica potenza nucleare della regione, va avanti con il suo progetto di eliminare i palestinesi dalla striscia di Gaza. I sauditi (e forse altri) guardano all’idea di una “bomba” araba come unica possibilità di riequilibrare la situazione regionale. E’ un quadro “da non sottovalutare” secondo gli analisti della “Rivista per la pace e il disarmo nucleare”.