Elon Musk ha lanciato il suo “America Party” come un guanto di sfida: contro Donald Trump, contro i Democratici, contro il sistema. E, in parte, ha ragione. L’America ha bisogno di una scossa. Ha bisogno di una voce nuova in un sistema che da troppo tempo soffoca ogni alternativa. Ma l’America Party rischia di diventare l’ennesimo atto di ribellione destinato a frantumarsi contro un muro invisibile: quello del duopolio politico più resistente dell’Occidente moderno.
Non è solo una questione di legge elettorale, di “plurality voting” o della cosiddetta Legge di Duverger. È una questione di abitudine culturale, di rendite di posizione, di un’intera classe dirigente che ha interesse a preservare il gioco a due. Democratici e Repubblicani si combattono, sì, ma da dentro un recinto che nessuno ha interesse a rompere davvero. Ogni tanto compare un Ross Perot, un Ralph Nader, uno Howard Schultz, uno Yang. Ogni volta, il sistema li metabolizza, li emargina, li ridicolizza. E tutto torna come prima.
Musk non è uno qualsiasi. È l’uomo più ricco del mondo. Ha mezzi, visibilità, seguaci, infrastruttura. Eppure, anche lui, alla prima mossa politica autonoma, ha pagato un prezzo alto: il crollo in borsa di Tesla, il panico degli investitori, la perdita di 14 miliardi in un solo giorno. Non per le sue idee. Ma per aver osato uscire dallo schema. Il titolo ha perso oltre il 7% in una sola mattinata, spingendo la capitalizzazione del gruppo sotto i mille miliardi. È bastata la sua discesa in politica per far esplodere un malcontento che cova da mesi: gli azionisti di Tesla sono inferociti. Non solo per il calo di valore, ma per la sensazione crescente che Musk stia trasformando l’azienda in un’estensione delle sue crociate personali, lasciando il timone vuoto mentre gioca al rivoluzionario.
Si può criticare Musk per la sua impulsività, per i suoi meme fuori tempo, per l’ironia aggressiva sul caso Epstein. Ma la sua indignazione per la “Big, Beautiful Bill” di Trump, una legge che premia i miliardari e taglia l’assistenza sanitaria ai poveri, è fondata. E il suo tentativo di offrire un’alternativa va almeno rispettato, se non altro perché nasce dal rifiuto di un sistema che funziona solo per chi lo controlla.
La reazione di Trump è stata immediata. Lui, il dirompente creatore del caos istituzionale, ha definito l’America Party “ridicolo” e accusato Musk di voler “solo creare caos”. Ma a creare caos nell’America di Trump dove chi dissente viene trattato come una minaccia è pericoloso.
Eppure, qui Musk mostra un’intuizione interessante: non punta alla Casa Bianca, ma a una manciata di seggi al Congresso. Due o tre senatori. Otto, forse dieci deputati. Pochi numeri, ma sufficienti a fare la differenza in un Congresso già appeso a voti singoli. In un sistema così polarizzato, dove le maggioranze sono fragili e ogni provvedimento passa per uno o due voti, diventare l’ago della bilancia significa avere potere senza dover conquistare tutto. È la logica dell’investitore: acquisire una quota di minoranza in un’azienda e usarla per dettare la linea. Musk vuole fare con il Congresso quello che Carl Icahn ha fatto con le multinazionali: entrare con poco, comandare come se avesse tutto.
È una strategia che nessun terzo partito americano ha mai tentato davvero. E potrebbe avere effetti sorprendenti. Un pugno di parlamentari muskiani contrari al gigantismo fiscale trumpiano potrebbe ribaltare equilibri, bloccare leggi, costringere entrambi i partiti a negoziare su temi oggi esclusi dal dibattito. Se davvero riuscisse a eleggerli, Musk diventerebbe non solo una spina nel fianco del Partito Repubblicano, ma un attore centrale della politica americana. Una minoranza parlamentare può fare molto più rumore di una candidatura presidenziale velleitaria.
Il sistema americano non è solo polarizzato. È bloccato. È strutturalmente impermeabile al cambiamento. I partiti sono privatizzati, le primarie sono dominate dal denaro e dalla mobilitazione ideologica e le regole sono fatte per escludere chiunque non giochi secondo le vecchie regole. Chi propone un terzo partito viene accusato di “dividere il voto” – come se il voto fosse proprietà di qualcuno o di “favorire il nemico”. Ma il vero nemico è il sistema che trasforma ogni sfida in un pericolo e ogni dissidente in un sabotatore.
Musk non è Perot, ma la sua sfida nasce dalla stessa frustrazione: vedere un Paese prigioniero di scelte obbligate, mentre il debito esplode, le famiglie arrancano e i partiti pensano solo a vincere le prossime primarie. Il fatto che un outsider debba creare un intero partito per far sentire la propria voce è la dimostrazione che il sistema è chiuso. Non competitivo. O, peggio, autoreferenziale.
Si può discutere se Musk sia serio o solo provocatorio. Se abbia un piano reale o stia solo reagendo d’impulso. Ma anche le provocazioni contano, quando smascherano una verità. E la verità è che l’America, la sua economia, la sua democrazia, la sua politica non reggono più a lungo sotto il peso del compromesso eterno tra due partiti incapaci di rappresentare una società così complessa.
In definitiva, il vero problema di Musk non è la mancanza di risorse, visione o coraggio. È la convinzione che un sistema rotto possa essere rifatto da zero, bypassando le istituzioni, le liturgie, le mediazioni. Ma la politica non è software. Non si può “debuggare” una democrazia con un meme né lanciare un nuovo partito come si lancia un update del computer.
Il duopolio americano non sopravvive per inerzia, ma perché ha imparato a inghiottire ogni crisi, ogni scissione, ogni forma di dissenso, trasformandola in combustibile per sé stesso. È un sistema che non va combattuto frontalmente, ma eroso dall’interno. Come ha fatto Trump, snaturando il Partito Repubblicano e rendendolo una proiezione del proprio ego presidenziale.
Ecco perché, paradossalmente, la strategia muskiana ha più senso di quanto sembri: non vuole cambiare tutto, vuole cambiare abbastanza da contare. In un Congresso spaccato e disfunzionale, bastano pochi seggi per tenere sotto ricatto una maggioranza. È cinismo puro. Ma è anche realismo politico.