Paramount ha pagato. Sedici milioni di dollari. Non per una colpa, né per una condanna. Ha pagato per paura. E questo basta per misurare quanto sia cambiata l’America. Un tempo era il Paese dove i giornalisti sfidavano i presidenti. Oggi è un Paese in cui le aziende dei media preferiscono arrendersi in silenzio. Dove si paga per evitare ritorsioni. Dove la libertà di stampa è subordinata agli affari, e la verità si misura in termini di esposizione legale.
La causa era l’ennesima offensiva di Trump: CBS avrebbe manipolato un’intervista a Kamala Harris, favorendola. Un’accusa fragile, demolita dai fatti. Stessa domanda, stessa risposta, montaggi diversi per esigenze televisive. Nessun inganno. Solo un taglio di routine. Ma nell’America di oggi, i fatti contano meno della paura di dispiacere a chi comanda.
Paramount non ha nemmeno provato a resistere. Ha firmato l’assegno e voltato pagina. Perché? Perché sta negoziando la fusione con Skydance Media, un’operazione che dipende dall’approvazione della FCC. E la FCC, nella nuova era trumpiana, non sarà più un arbitro imparziale, ma un braccio operativo del potere. Meglio piegarsi subito che finire stritolati dopo.
Nel frattempo, attorno alle redazioni è calato il silenzio. Non solo nei media, ma anche negli studi legali. Chi ha difeso testate sgradite a Trump è finito nel mirino. Minacce, campagne diffamatorie, pressioni anonime. Alcuni avvocati hanno ricevuto telefonate minatorie. Altri sono stati messi alla gogna sui social. Il messaggio è chiarissimo: chi prova a difendere il giornalismo sarà isolato, screditato, punito. È la nuova normalità. La strategia della paura. E funziona.
E poi c’è lo stile Trump. Quello del palazzinaro anni ’80, bullo in giacca e cravatta. Bancarotte a raffica, casinò falliti, appartamenti con superfici triplicate nei documenti bancari e dimezzate nelle dichiarazioni fiscali. Il classico gioco delle tre carte, versione immobiliare. Talmente spregiudicato che perfino Mazars, lo studio che per anni gli ha certificato i bilanci, si è sfilato: non sono affidabili, ha dichiarato. E dietro le quinte, per anni, c’era Michael Cohen, il “fixer”: colui che minacciava, pagava, occultava, aggiustava. Finché ha rotto il silenzio anche lui. E insieme a Cohen, a proteggere l’immagine pubblica di Trump, c’era anche David Pecker, l’ex editore del National Enquirer, che comprava il silenzio di chi voleva parlare — ex amanti, dipendenti, testimoni scomodi — per poi nascondere tutto in un cassetto. Il trucco si chiamava “catch and kill”: compra, insabbia, cancella. Ma la rete di protezione non si fermava al gossip: adesso si estende ai gangli del potere giudiziario. Emil Bove, uno dei suoi avvocati personali, è stato magicamente nominato vice ministro della Giustizia. Alina Habba, procuratrice ultra-loyalist, promossa a guida della procura federale del New Jersey. Todd Blanche, anche lui legale di fiducia, diventato deputy attorney general. E chi invece ha avuto l’ardire di indagarlo? Via, epurato, fatto fuori. Una giustizia a geometria variabile, piegata al culto del capo, dove le promozioni si guadagnano con la fedeltà, non con la legge. E funziona. Nel 2024 era toccato ad ABC: altri 15 milioni. Ora la CBS. Domani chi? CNN? MSNBC? ProPublica? Le redazioni locali che ancora fanno inchieste?
Paramount non ha difeso il giornalismo. Ha protetto i propri interessi. E ha lasciato i reporter in trincea, senza copertura. Le dimissioni del produttore Bill Owens e della presidente Wendy McMahon parlano da sole. Hanno capito che l’azienda ha mollato. E con lei, la propria missione.
Non ci sono giustificazioni. Né da parte di Paramount, né da parte di chi continua a fingere che sia solo un caso isolato. Non lo è. È un precedente. Ed è già diventato un metodo: il potere che denuncia, i media che pagano, il pubblico che perde.
Trump ha capito che non serve vincere. Basta minacciare. Basta intimidire. Basta far costare troppo la verità. È una strategia. E sta funzionando.
La stampa americana ha due scelte: inginocchiarsi o alzare la voce.
Ma chi si inginocchia una volta, difficilmente si rialza. E chi tace, ha già perso. Il giornalismo non muore per censura. Muore per codardia.