Con la sua decisione di limitare le cosiddette “ingiunzioni universali”, la Corte Suprema ha messo a segno un colpo durissimo contro la certezza del diritto e l’equilibrio costituzionale tra i poteri dello Stato. La sentenza, ideologica, spaccata lungo linee partitiche, e chiaramente calibrata per favorire l’agenda dell’amministrazione Trump, segna un nuovo punto di svolta nella lunga marcia verso l’espansione del potere esecutivo.
La Corte, con sei voti conservatori contro tre liberali, ha deciso che i tribunali federali di primo grado non possono più bloccare le politiche su scala nazionale, nemmeno quando risultano manifestamente incostituzionali. Si tratta di una svolta che disarma i giudici e rafforza un esecutivo sempre più proteso verso l’accentramento del potere. Viene così indebolito uno dei pochi strumenti capaci, fino a oggi, di arginare con una certa tempestività le iniziative più controverse della Casa Bianca. In un contesto dove il controllo del Congresso è già largamente nelle mani del presidente e i meccanismi di vigilanza interna sono stati svuotati o aggirati, la giustizia federale rappresentava l’ultimo vero contrappeso. Ora anche quel presidio rischia di diventare inoffensivo.
E non è la prima volta che accade. Nonostante l’immagine di imparzialità che la Corte cerca di proiettare, la sua storia è segnata da sentenze profondamente influenzate da considerazioni politiche, spesso in palese contrasto con i principi di giustizia. Nel 1857, ad esempio, la Corte emise Dred Scott v. Sandford, sentenza che negava la cittadinanza agli afroamericani e che ha contribuito a legittimare la schiavitù. Nel 1896, con Plessy v. Ferguson, sancì la segregazione razziale sotto la formula ipocrita del “separati ma uguali”. Ancora nel 1944, Korematsu v. United States convalidò l’internamento forzato di cittadini nippo-americani durante la Seconda Guerra Mondiale.
Ma l’intreccio tra giustizia e potere si è visto anche in tempi moderni: nel 2000, la sentenza Bush v. Gore interruppe il riconteggio elettorale in Florida e consegnò la presidenza a George W. Bush, in una decisione che molti costituzionalisti definirono giuridicamente debole e chiaramente partigiana. Più recentemente, Citizens United v. FEC ha trasformato il denaro in politica in “libertà di espressione”, aprendo le porte all’influenza illimitata delle grandi corporation nel sistema elettorale.
Non sorprende, allora, che già negli anni ’30 il presidente Franklin D. Roosevelt, esasperato dai continui veti della Corte alle sue riforme del New Deal, avesse proposto di aumentare il numero dei giudici per superare la maggioranza conservatrice. Il suo “court-packing plan” non fu mai attuato, ma bastò a spingere la Corte a cambiare linea, in quello che è ricordato come un vero cedimento politico del potere giudiziario alla pressione dell’esecutivo. Un precedente storico che rivela la vera natura della Corte: non sempre arbitro, talvolta attore politico.
Oggi, con tre giudici nominati da Trump e una supermaggioranza conservatrice, quella dinamica si ripresenta con forza. Le sentenze si allineano sempre più agli interessi del potere esecutivo, anche quando questo si muove al limite, o anche oltre, della legalità. Come ha ammonito la giudice Sonia Sotomayor nel suo dissenso, “oggi la minaccia è la cittadinanza per diritto di nascita; domani potrebbe essere la libertà di culto o il diritto al possesso legale di armi”.
Nel quadro istituzionale americano, i tribunali avrebbero dovuto essere l’ultimo baluardo contro gli abusi del potere esecutivo.
A rendere ancora più problematica l’evoluzione recente della Corte è il consolidarsi di legami sempre più stretti tra alcuni dei suoi membri conservatori e una rete opaca di grandi donatori, finanzieri e gruppi politici ultraconservatori. Il giudice Clarence Thomas, per esempio, ha beneficiato per anni di vacanze di lusso, voli privati e regali milionari da parte del miliardario repubblicano Harlan Crow, tutti non dichiarati e finiti al centro di un’inchiesta del Senato. Al centro di questa rete di influenza c’è anche Leonard Leo, stratega dell’ultradestra giudiziaria e artefice delle nomine di Gorsuch, Kavanaugh e Barrett, che controlla flussi di denaro oscuri tramite fondazioni collegate a donazioni miliardarie, come quella di 1,6 miliardi da parte dell’imprenditore Barre Seid. Strutture come la Supreme Court Historical Society hanno facilitato rapporti informali tra giudici e finanziatori, rafforzando la sensazione di una Corte sempre più esposta a pressioni politiche e ideologiche.
In questo contesto, l’imparzialità appare non solo compromessa: sembra messa all’asta. E oggi, quell’equilibrio appare pericolosamente compromesso. Nel nome della moderazione giudiziaria, la Corte ha dunque smantellato uno degli ultimi strumenti capaci di contenere un presidente sempre più insofferente a limiti e regole. Invece di ergersi a guardiana della Costituzione, ha scelto di agire come arbitro del potere esecutivo, timbrando ordini presidenziali con zelo e deferenza.
In questo scenario, parlare di “imparzialità” suona sempre più come un esercizio di retorica istituzionale. Quando le sentenze coincidono sistematicamente con gli interessi di chi finanzia, promuove o nomina i giudici, la Corte non appare più come un arbitro neutrale, ma come organo incorporato nel meccanismo di potere. Un tempo si temeva il “governo dei giudici”; oggi assistiamo al consolidarsi di una Corte dei donatori, dove i ricchi e i potenti influenzano le regole e i giudici firmano.