La forza di Donald Trump, oggi, nasce anche, forse soprattutto, dalla debolezza del suo avversario. Mentre il presidente repubblicano detta l’agenda politica con dichiarazioni incendiarie e iniziative muscolari per dividere sempre più il paese, il Partito Democratico è ancora paralizzato da uno psicodramma interno, smarrito nei suoi infiniti dibattiti su wokismo, identità di genere e questioni procedurali.
Nelle stanze del Comitato Nazionale Democratico (DNC), dopo la sconfitta alle elezioni di novembre scorso le lacerazioni e le faide personali stanno minando la capacità del partito di offrire un’alternativa credibile al trumpismo. La leadership di Ken Martin, eletto a febbraio dopo le batoste elettorali del 2024, è nel caos. Descritto da alcuni colleghi come “debole”, “invisibile” e “più preoccupato delle guerre intestine che di Trump”, il nuovo presidente è già sotto assedio.
“Siamo nella più grave crisi esistenziale con Donald Trump, e il DNC non ha ancora sparato un colpo”, ha dichiarato Rahm Emanuel, ex capo dello staff di Obama, riassumendo la frustrazione che attraversa oggi tutto l’elettorato democratico. In questi giorni di fuoco, con i Marines calati a Los Angeles per ordine diretto della Casa Bianca, con retate anti-immigrati persino negli stadi, con parlamentari arrestati in diretta TV, la risposta non è arrivata dalla leadership del partito, ma dalla società civile. Milioni di cittadini sono scesi in piazza per il No King Day senza che il Partito Democratico muovesse un dito. Nessuna regia dall’alto, nessuna mobilitazione ufficiale. Solo la rabbia e la determinazione di un Paese che ha deciso di non piegarsi, mentre la classe dirigente democratica restava chiusa nei propri silenzi. Il dissenso si è organizzato da solo, affidato alla spontaneità dei movimenti locali, alle associazioni civiche, alle comunità online. E proprio questo, il fatto che il cuore della protesta sia nato fuori dal partito, rende ancora più evidente la crisi di rappresentanza che affligge il DNC.
Nel giro di pochi giorni, tre figure chiave hanno lasciato i vertici del partito. David Hogg, giovane vicepresidente del DNC, si è dimesso l’11 giugno denunciando “disaccordi fondamentali” sul ruolo e sulle priorità del comitato. A seguire, due pesi massimi del sindacalismo americano, Randi Weingarten (American Federation of Teachers) e Lee Saunders (AFSCME), hanno abbandonato i loro incarichi all’interno del DNC, segnalando un’incompatibilità sempre più insanabile con la leadership Martin.
Dietro la scelta di Hogg, ex attivista sopravvissuto alla strage di Parkland e volto simbolo della nuova generazione progressista, c’è molto più di un semplice dissidio interno: è esplosa una rottura profonda tra il Partito Democratico e il mondo dei millennial e della Gen Z, che sempre più spesso non si sentono rappresentati da un apparato che percepiscono come vecchio, autoreferenziale e staccato dalla realtà quotidiana. In pubblico e in privato, Hogg ha denunciato l’incapacità cronica del partito di parlare ai giovani, di intercettarne la rabbia, le priorità e le urgenze: il cambiamento climatico che devasta comunità intere, l’esplosione del debito studentesco, l’insicurezza abitativa, la precarietà strutturale del lavoro.

Le dimissioni di Hogg non sono solo un atto di protesta, ma un atto d’accusa verso una dirigenza che continua a litigare su comitati e regolamenti mentre “là fuori”, come ha scritto in un post diventato virale, “una generazione intera si sente abbandonata, ignorata, e condannata a vivere peggio dei propri genitori”. Nel mirino del giovane attivista anche i grandi sindacati storici, accusati di rappresentare un mondo che non esiste più: “Il sindacato ‘pane e lavoro’ è morto e sepolto. Oggi ci sono milioni di ragazzi senza contratto, senza tutele, senza prospettive. E nessuno del partito parla per loro”.
Una frattura profonda, che rischia di erodere non solo l’unità del partito, ma la sua base elettorale futura. Per molti giovani attivisti, il DNC è oggi più vicino a un’oligarchia autoreferenziale che a un movimento popolare. E se la frattura non verrà sanata, il rischio non è solo perdere le elezioni: è perdere una generazione intera.
Martin ha cercato di minimizzare il caos, puntando tutto sull’efficienza operativa. “Mi sono candidato per vincere le elezioni, non per vincere discussioni inutili a Washington”, ha dichiarato, rivendicando 32 vittorie elettorali a livello locale e una raccolta fondi da record nei primi tre mesi del suo mandato.
Ma dietro la retorica si nasconde un clima sempre più tossico. Le sue critiche a Hogg durante una call privata sono state rese pubbliche, generando accuse incrociate e sospetti di talpe interne. La sua decisione di rimuovere Weingarten e Saunders dal potente Comitato per le Regole e lo Statuto del DNC è apparsa a molti come una vendetta politica.
Tutto questo accade nel momento in cui il Partito Democratico avrebbe un disperato bisogno di compattezza e determinazione. Le imponenti proteste anti-Trump scoppiate in tutto il Paese dimostrano che l’opposizione ha ancora forza e mobilitazione popolare. Ma mentre milioni di persone scendono in piazza, il DNC affonda in un dramma da soap opera, paralizzato dalle faide interne. Nel frattempo, Trump cavalca indisturbato la narrativa del “disordine liberal” e continua a firmare decreti sempre più restrittivi. Esulta pubblicamente per aver imposto la Guardia Nazionale a Los Angeles, un’azione che, più di ogni altra cosa, fotografa un Paese profondamente lacerato e polarizzato.
Il deputato democratico del Wisconsin Mark Pocan ha definito la situazione all’interno della direzione del Partito Democratico “peggio di un dramma in un consiglio studentesco dell’università”. E Chuck Rocha, stratega democratico, ha colto il punto: “Ogni minuto speso a parlare delle lotte interne al DNC, invece che di Trump, è un minuto perso. Stiamo solo dimostrando che il Partito Democratico non sa governare nemmeno sé stesso”.

Non è la prima volta che il Partito Democratico si trova a combattere con i propri demoni. Dopo la sconfitta del 2016, le accuse sulle primarie truccate a favore di Hillary Clinton per danneggiare Bernie Sanders lasciarono profonde cicatrici e un partito spaccato. E la ferita ancora non si è rimarginata. Oggi, in un’America sempre più polarizzata e con un avversario come Trump che detta i tempi e i temi del dibattito pubblico, i Democratici non possono permettersi di commettere gli stessi errori. Eppure, è esattamente quello che stanno facendo. Incapaci di costruire un messaggio chiaro, popolare e diretto contro le continue sopraffazioni della Casa Bianca, sul lavoro, sulla sanità, sulla sicurezza economica, restano impantanati in discussioni sterili, mentre Trump cerca di far passare un bilancio federale che arricchirà i più forti e indebiterà per generazioni chi già fatica ad arrivare a fine mese.
Anziché reagire con un programma chiaro, concreto e comprensibile, il Partito Democratico continua a perdersi in un linguaggio identitario sempre più distante dal sentire comune, lasciandosi risucchiare da alleanze e posizionamenti che appaiono incomprensibili, come il sostegno ambiguo ad alcune frange filopalestinesi, e che finiscono per alienare l’elettorato operaio e moderato, un tempo cuore pulsante della sua base.
Nel silenzio assordante della leadership, tra dimissioni, lotte intestine e accuse incrociate, il partito appare scollegato dalla realtà di un Paese che invece, senza alcuna guida dall’alto, trova da solo la forza di mobilitarsi e scendere in piazza. Il rischio non è solo quello di ripetere il disastro del 2024, ma di viverne una versione aggravata: con i candidati repubblicani che si presentano come baluardi dell’ordine e della forza, mentre l’opposizione non riesce nemmeno a trovare coesione interna o un messaggio capace di contrastare davvero il caos autoritario imposto da Trump.