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Trump, Putin, Erdogan, Xi: segnali di dialogo sotto la minaccia di un conflitto globale

Quando anche i potenti si stancano della guerra, può nascere una fragile speranza

Carlo Di StanislaobyCarlo Di Stanislao
Trump, Putin, Erdogan, Xi: segnali di dialogo sotto la minaccia di un conflitto globale

Donald Trump e Vladimir Putin / Ansa

Time: 3 mins read

“Gli uomini si stancano delle guerre, anche quando le hanno volute.”
— Napoleone Bonaparte

Cinquanta minuti di telefonata tra Donald Trump e Vladimir Putin: un tempo breve, in apparenza, ma che potrebbe avere un peso enorme sulla bilancia della storia. I due leader, da sempre protagonisti controversi e spesso in conflitto con le logiche della diplomazia classica, si ritrovano oggi dalla stessa parte: quella che cerca, o quantomeno simula di cercare, una via d’uscita dall’escalation tra Israele e Iran.

“Questa guerra deve finire”, ha scritto Trump sul suo social Truth, alludendo tanto al conflitto mediorientale quanto a quello in Ucraina. Un doppio messaggio, che contiene, tra le righe, il riconoscimento di una verità: nessun Paese — nemmeno il più armato, il più potente o il più ambizioso — può vincere davvero in una guerra globale.

Putin si è mostrato disponibile a mediare. La Russia ha condannato l’operazione israeliana e ha lanciato l’allarme su un possibile allargamento del conflitto. Lungi dall’essere un gesto altruista, questa presa di posizione è una mossa lucida e realistica: Mosca non può permettersi un’altra crisi internazionale, soprattutto in un momento in cui la guerra in Ucraina logora risorse e reputazione.

Allo stesso tavolo, seppur idealmente, siedono Erdogan e Xi Jinping. Il primo, sempre più deciso a presentarsi come ago della bilancia tra Oriente e Occidente, ha ribadito che la Turchia farà “tutto il possibile per evitare un’escalation incontrollata”. Il secondo, più cauto ma altrettanto deciso, ha condannato l’attacco israeliano ai danni dell’Iran e ha parlato di “precedente pericoloso”.

Ma al di là della cronaca e delle dichiarazioni ufficiali, ciò che sta accadendo merita una riflessione più profonda, quasi esistenziale.

La guerra come stanchezza del mondo

Viviamo in un’epoca in cui la guerra ha perso il suo volto epico. Non è più la “prova degli eroi” di cui parlavano gli antichi, né l’”ultima ratio” delle potenze ottocentesche. Oggi, la guerra è automatica, tecnologica, impersonale — e per questo ancora più spaventosa. Un drone può scatenare un inferno. Un algoritmo può ordinare un attacco. E un solo errore umano, o un gesto impulsivo di un leader, può trascinarci tutti nel baratro.

Il mondo si è stancato della guerra, anche se la guerra continua a esistere. Ci si stanca come ci si stanca di un dolore cronico: non si trova sollievo, ma si cerca una tregua. E forse è in questo stato di esaurimento collettivo che va letto il rinnovato (e sorprendente) protagonismo diplomatico di Trump, Putin, Erdogan e Xi.

Le guerre moderne sono troppo costose da vincere, troppo rovinose da perdere, e sempre più inutili. Ma c’è di più: la loro imprevedibilità è diventata un fattore paralizzante. Ogni colpo inferto a una nazione riverbera nell’economia globale, nella sicurezza energetica, nella coesione sociale di paesi lontani. È l’effetto domino di un mondo iperconnesso, in cui nessuno è davvero al sicuro se anche uno solo dei tasselli crolla.

Diplomazia o illusione?

Dobbiamo chiederci se questi segnali di dialogo siano autentici o solo manovre opportunistiche. È lecito dubitare. Eppure, è proprio quando la fiducia è bassa che la diplomazia diventa più necessaria. Le parole contano — anche quelle dette da chi ha perso credibilità. Perché il solo fatto che si torni a parlare, anziché sparare, è già un passo nella giusta direzione.

Le crisi hanno il potere di ridefinire gli equilibri. Possono distruggere, ma anche obbligare alla lucidità. L’Iran e Israele si trovano oggi su un crinale pericolosissimo. Ma è attorno a loro che si muove il vero gioco globale: quello di potenze che, per la prima volta dopo molto tempo, sembrano meno interessate a trarre vantaggi immediati dalla guerra e più preoccupate di contenerne gli effetti collaterali.

La lezione della storia

Napoleone, che la guerra la conosceva meglio di molti altri, sapeva che l’entusiasmo bellico svanisce in fretta. Gli uomini si stancano. Le nazioni si impoveriscono. I popoli si ribellano. Le guerre moderne non producono imperi: producono rifugiati, inflazione, sfiducia e populismi.

Ed è forse per questo che oggi le cancellerie si muovono, i telefoni squillano, e i leader parlano. Non è pacifismo. È sopravvivenza. È istinto di conservazione. È — paradossalmente — il riconoscimento che il vero potere, oggi, sta nel fermare una guerra più che nell’avviarla.

Se davvero stiamo entrando in una nuova fase geopolitica — una fase in cui anche i più cinici si scoprono stanchi della violenza — allora forse c’è una speranza. Ma sarà fragile. E dovremo difenderla non con le armi, ma con la responsabilità, il dialogo e la memoria di ciò che la guerra, sempre, lascia dietro di sé: rovine e silenzi.

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Carlo Di Stanislao

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