Donald Trump ha costruito la sua carriera politica sulle fondamenta di un populismo anti-immigrazione, trasformando i migranti irregolari nella caricatura perfetta del nemico interno: stupratori, criminali, mangiatori del gatto della porta accanto, usurpatori del sogno americano. Ma ora che la sua stessa repressione ha cominciato a mordere le mani che nutrono l’economia agricola, turistica e dell’edilizia di piccolo cabotaggio negli Stati Uniti, il presidente è corso ai ripari. Non per principio, ma sotto la pressione dei suoi elettori MAGA, dei grandi donatori e, forse, anche per gli interessi diretti delle sue aziende.
Il paradosso è lampante. Il presidente che promette deportazioni di massa ha ordinato all’ICE di sospendere le retate nei campi agricoli, negli hotel e nei ristoranti. Perché? Perché gli agricoltori, suoi elettori, non trovano braccia disponibili e i manager dell’ospitalità, in gran parte suoi finanziatori e simili per interessi, vedono il collasso operativo. Ma non solo. Perché ogni giorno, in silenzio e all’alba, un pezzo di America fatta di piccoli imprenditori, muratori, elettricisti, giardinieri, idraulici, ditte di ristrutturazione familiare, si affolla nei parcheggi di Home Depot o negli angoli delle stazioni delle suburbia per reclutare la manodopera irregolare, spesso pagata in contanti e senza documenti.
Sono milioni gli “illegali” che, per conto del “contractor” che li paga a giornata, rifanno giardini nei sobborghi bianchi, costruiscono recinzioni o ristrutturano cucine per imprenditori che gridano contro l’immigrazione, che hanno incollato il bumper sticker con “Trump 47”, che mettono la bandierina a stelle e strisce sull’auto per il loro patriottismo e poi, nel quotidiano, si affidano a loro per la loro piccola impresa.
Basta entrare in una cucina in uno dei ristoranti d’America per vedere chi lava i piatti. Una realtà strutturale, nascosta sotto la superficie della propaganda. Un’economia parallela, nota, tollerata e sfruttata, che si regge su queste contraddizioni.
Così la crociata identitaria, alimentata da Stephen Miller con toni suprematisti, viene per il momento addolcita per convenienza economica. Il risultato è una politica schizofrenica: retate nei cantieri tessili di Los Angeles e nei magazzini industriali, ma tregua nei campi di fragole, nelle cucine degli hotel di lusso e, più ipocritamente, nei retrobottega dei sobborghi.
Il cuore del programma “caccia agli illegali” si trasforma, all’occorrenza, in “caccia selettiva” a seconda delle esigenze dei lobbisti e dei territori elettorali. Un giorno si inviano i Marines a Los Angeles contro i manifestanti pro-immigrazione, l’indomani si proteggono gli stessi immigrati (irregolari) perché servono a mungere vacche o rifare letti o raccogliere le fragole. E oggi, anche a colare cemento o stendere tappeti nei cantieri residenziali.
Non è una novità. Già nel primo mandato, Trump aveva concesso lettere di esenzione per i braccianti agricoli. L’incoerenza è sistemica. Da un lato la guerra culturale per galvanizzare una ottusa base ultra-conservatrice; dall’altro, la consapevolezza che senza immigrati, regolari o meno, interi settori crollano. Secondo il Dipartimento dell’Agricoltura, oltre il 40% della forza lavoro agricola non ha documenti. E nei sondaggi interni del’industria edilizia, una quota simile emerge anche per i lavoratori nei cantieri più piccoli.
Ma le implicazioni vanno oltre l’agricoltura e l’edilizia. Gli economisti, fa notare il Washington Post, avvertono che, per la prima volta in cinquant’anni, l’immigrazione netta potrebbe diventare negativa. Le politiche di Trump, la chiusura dei confini, le deportazioni, il clima ostile rischiano di svuotare settori fondamentali, alimentando inflazione, carenza di manodopera e squilibri nel sistema previdenziale. E intanto gli Stati Uniti si scoprono meno attrattivi anche per studenti, ricercatori, ingegneri.

Questa incoerenza non è frutto del caso. È il prodotto di una politica costruita su slogan, non su principi. Il vero architetto di questa ideologia è Stephen Miller, l’uomo che da anni orchestra dall’ombra una guerra culturale per ridefinire l’identità americana. Miller, artefice della separazione dei figli migranti al confine, del bando ai musulmani e ora del tentativo di cancellare il diritto alla cittadinanza per nascita, non si cura delle esigenze economiche: il suo progetto è etnico, punitivo, fondato su esclusione e paura.
Eppure, persino i sostenitori più convinti cominciano a mostrare segni di disillusione. La promessa di deportazioni di massa si scontra con la realtà operativa, con la necessità economica, e con la paura della condanna politica. Perché, mentre Miller alza la posta accusando i manifestanti di “insurrezione”, Trump sospende i raid nei settori amici. Perché, mentre gli agenti ICE perlustrano i magazzini e arrestano i lavoratori nei parcheggi di Home Depot, nessuno osa toccare i raccolti della Central Valley o le maestranze non registrate di Palm Beach.
La recente sospensione delle retate nei campi e negli hotel non è una marcia indietro sul piano morale: è una maschera tattica. Una concessione per non perdere l’appoggio della “base produttiva” del trumpismo, fatta non solo di megadonatori ma anche di piccoli imprenditori, commercianti e proprietari che vivono grazie a questa ambiguità del sistema.
In fondo, è sempre la stessa America a due velocità. Quella che incatena bambini nei centri di detenzione, ma chiude un occhio davanti ai raccoglitori di pesche o ai giardinieri “in nero”. Quella che grida “America First”, ma che, se i letti non sono rifatti a Mar-a-Lago, preferisce l’indulgenza all’espulsione.
E nel frattempo, dietro le quinte, Stephen Miller sorride. Perché sa che, al netto delle contraddizioni tattiche, il suo disegno prende forma: un’America più bianca, meno aperta e sempre più ipocrita.