Da “America First” ad “America Alone”, il passo è stato breve e… disastroso.
Nel suo secondo mandato, Donald Trump non si sta limitando a ridisegnare la politica estera americana: la sta smantellando, con una miscela di provocazioni, ritirate strategiche mascherate da vittorie e promesse irrealizzabili. Gli Stati Uniti, sotto la sua guida, stanno abbandonando il proprio ruolo globale e stanno perdendo, uno dopo l’altro, il rispetto e la fiducia degli alleati storici.
Uno dei gesti più simbolici e inquietanti è stata la minaccia di “conquistare” militarmente la Groenlandia, provocando una reazione indignata dalla Danimarca e sollevando in Europa l’ipotesi, fino a poco fa impensabile, di un confronto interno alla NATO. L’idea che gli Stati Uniti possano diventare un aggressore, e non più un garante, ha scosso profondamente le capitali europee, che oggi si sentono tradite, abbandonate, persino osteggiate.
Alla retorica muscolare del capo della Casa Bianca si affianca una sostanza evanescente. Trump ha promesso che avrebbe posto fine alla guerra tra Mosca e Kiev “in 24 ore” se fosse stato rieletto, una promessa tanto roboante quanto priva di fondamento, che implica di fatto una cessione del territorio ucraino alla Russia e un’imposizione unilaterale di un cessate il fuoco favorevole a Putin. Lo stesso schema si è visto con la Cina: l’accordo commerciale che Trump ha celebrato come una vittoria è, in realtà, una ritirata strategica travestita da compromesso, con Pechino che ha ottenuto concessioni senza vere riforme strutturali, mentre gli agricoltori americani verranno salvati con i sussidi pubblici.
Nel frattempo, l’isolazionismo trumpiano ha assunto una forma sistemica. A guidarlo sono figure come il vicepresidente J.D. Vance e il segretario alla Difesa Pete Hegseth, che incarnano la nuova dottrina: basta guerre, basta impegni, basta alleanze se non producono vantaggi immediati. Il “vecchio alleato”, l’Europa, è il bersaglio preferito, così come i vicini di casa, Messico e Canada. I leader trumpiani accusano i partner europei di “parassitismo strategico”, in particolare per la mancata partecipazione alla difesa delle rotte commerciali nel Golfo Persico, dove le navi occidentali sono sempre più minacciate dai ribelli Houthi. “Perché dovremmo rischiare vite americane per proteggere petroliere tedesche?”, ha tuonato Hegseth. La logica è semplice: si paga o si è soli.
Nel nome del “taglio degli sprechi”, Trump ha anche annunciato la dismissione di USAID, l’agenzia per lo sviluppo internazionale, cancellando decenni di politiche bipartisan volte a promuovere stabilità, sanità pubblica e crescita economica nei paesi più poveri del pianeta. Un colpo non solo simbolico, ma strategicamente suicida. La retorica populista del risparmio interno ignora che ogni dollaro investito in aiuti esteri ha storicamente moltiplicato l’influenza americana nel mondo, creando alleanze durature e prevenendo crisi. L’eliminazione di USAID ha lasciato un vuoto immediato, in particolare in Africa, Sud-Est asiatico e America Latina, dove la Cina si è mossa con rapidità, offrendo infrastrutture, prestiti e forniture mediche in cambio di accesso strategico e lealtà diplomatica. Il ritiro americano non ha quindi generato un risparmio, ma un cedimento di terreno geopolitico a vantaggio diretto di Pechino.
L’opinione pubblica americana ha iniziato a seguire questa deriva. Un sondaggio del Chicago Council on Global Affairs rivela che per la prima volta in 49 anni la maggioranza dei repubblicani preferisce che gli Stati Uniti si tengano fuori dagli affari mondiali. Un mutamento culturale profondo, alimentato dalla retorica trumpiana contro i “globalisti”, contro la NATO, contro qualsiasi forma di cooperazione internazionale. La parola “alleanza” è ormai trattata come un insulto.
E tutto questo accade mentre il caos interno paralizza la politica americana. Il Congresso è bloccato da mesi, la tensione tra Stati cresce, le istituzioni federali sono delegittimate e la presidenza Trump, tra ordini esecutivi controversi, minacce militari ai governatori e uso politico dell’apparato giudiziario, contribuisce a un’instabilità senza precedenti. L’America, sempre più accartocciata su sé stessa, appare incapace di guidare, e sempre meno incline a farlo.
Anche all’estero, il panorama è desolante: gli alleati europei osservano con crescente sfiducia le incoerenze di Trump, dalle promesse di pace alle provocazioni militari, mentre i “vicini di casa” Canada e Messico, un tempo partner privilegiati, sono ormai più che disincantati dopo dazi, insulti e patti commerciali riscritti e poi stracciati. L’“America Alone” non è più solo uno slogan: è una realtà geopolitica in rapido deterioramento.
Come ha ricordato la vicepresidente Kamala Harris alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco: “L’isolamento di Trump non è isolamento: è abbandono”. È lasciare spazio a potenze come Russia e Cina, pronte a colmare il vuoto. E se Washington si tirerà indietro, non seguirà la pace, ma nuove guerre, più instabilità e meno libertà, anche per gli stessi americani.
È il paradosso dell’“America First” di Trump: una politica che, promettendo di rafforzare la nazione, la rende più sola, più debole, più irrilevante.