C’è un principio che guida ogni mossa di Donald Trump in politica interna: il confronto non è un rischio, è la strategia. Dove c’è tensione, lui la radicalizza. Dove c’è un problema sociale, lui lo militarizza. E dove ci sarebbe spazio per la mediazione, lui lo cancella.
Mentre la California brucia — metaforicamente e letteralmente — il presidente ha gettato benzina sul fuoco. Con 2.000 soldati della Guardia Nazionale nelle strade di Los Angeles, contro il parere del governatore Gavin Newsom. Con le retate dell’ICE che hanno arrestato 118 immigrati, in operazioni notturne e con modalità da stato di polizia. Con dichiarazioni incendiarie che etichettano i manifestanti come “istigatori pagati dalla sinistra radicale”.
Non cerca l’ordine, Trump: cavalca il disordine. È nel caos che riesce a posizionarsi come uomo forte, come l’unica voce capace di “rimettere a posto le cose”, anche se quelle cose le ha rotte lui per primo. Per lui, la politica è teatro di guerra, non di dialogo. Lo ha dimostrato in passato contro Harvard, contro i sindacati, contro i giudici. Lo sta facendo oggi con la militarizzazione del dissenso.
Ed è qui che si gioca il cuore del conflitto: non sull’ordine pubblico, ma sull’equilibrio costituzionale. Chi comanda in California? Un presidente che si impone dall’alto con le truppe, o un governatore democraticamente eletto che difende i diritti dei suoi cittadini? La risposta di Trump è chiara: comando io, anche se voi, cittadini californiani, non mi avete eletto.
Ma la vera anomalia non è nella prevedibile deriva autoritaria del presidente. È nel vuoto che lo circonda. Perché mentre Gavin Newsom e altri governatori democratici denunciano un abuso di potere, e mentre le piazze della California si riempiono di cittadini, studenti, sindacalisti e attivisti, la leadership democratica a Washington è silente, spettatrice assente di una crisi costituzionale.
Nel mezzo dello scontro più acceso tra Stato e governo federale dai tempi del movimento per i diritti civili, Chuck Schumer e Hakeem Jeffries sembrano scomparsi. Nessuna conferenza stampa, nessuna mobilitazione del Congresso, nessun piano politico alternativo. Solo tweet anodini, prudenza paralizzante e comunicati da burocrazia parlamentare.
Schumer, leader della minoranza al Senato, è ormai più contabile che combattente. Sa fare i numeri, ma ha dimenticato come si scrive la Storia. E Jeffries, che dovrebbe incarnare la nuova generazione democratica, sembra un moderatore da convention, più interessato ai toni che ai contenuti.
Nel frattempo, David Huerta, leader della SEIU, viene arrestato mentre con una telecamera documenta un blitz dell’ICE. L’ACLU convoca presidi e protesta. Il distretto scolastico di Los Angeles si riunisce in emergenza. La società civile c’è, resiste, si espone. Ma i vertici del partito restano chiusi nel bunker del calcolo elettorale.

Trump detta l’agenda. Gli altri la inseguono. Ma in politica, chi occupa lo spazio del conflitto conquista anche quello della narrazione. E se i democratici non parlano, è Trump a decidere cosa viene detto — e chi è il nemico.
E mentre la Casa Bianca alza la voce e chiude i tavoli, le comunità locali restano sole, a gestire una crisi sociale acutizzata da una leadership che invece di stemperare le tensioni le sfrutta per rafforzarsi. In una democrazia sana, il ruolo del leader è ridurre le distanze. In quella di Trump, è allargarle per dominare meglio.
Non è solo una questione di autorità federale. È la tenuta della democrazia a essere in gioco. Perché se un presidente può ignorare i governi locali, può militarizzare le strade, può usare l’esercito come strumento di repressione politica, senza che l’opposizione alzi la voce, allora il confine tra democrazia e autoritarismo diventa tragicamente sottile.
In tempi eccezionali servono voci eccezionali. Ma quelle della leadership democratica, oggi, sembrano sintonizzate su una frequenza sbagliata: quella dell’attesa, del rinvio, della cautela. E mentre loro riflettono se sia il caso di indignarsi, Trump ha già scelto il campo di battaglia.
Per lui, la mediazione è solo un’altra forma di debolezza. Il conflitto, invece, è profitto politico. E se Schumer e Jeffries non lo capiscono — o peggio, lo capiscono e non agiscono — allora il rischio è che, quando finalmente proveranno a farsi sentire, nessuno li starà più ad ascoltare.