Negli Stati Uniti è tornata al centro del dibattito l’idea dal fascino rassicurante di produrre in patria. Dopo decenni di delocalizzazione e crescente dipendenza dalle catene globali, il concetto di Made in USA ha ritrovato slancio. Non è più solo uno slogan, ma una promessa politica e un richiamo all’orgoglio nazionale, oltre a essere una risposta concreta ai timori economici.
Dopo quasi mezzo secolo di deficit commerciale, la parola d’ordine è reshoring: riportare la produzione a casa. Questa visione unisce repubblicani e democratici, di solito distanti su molti temi, ma oggi allineati nel voler rilanciare l’industria in settori strategici come semiconduttori, principi attivi farmaceutici e minerali critici. Si moltiplicano gli annunci di piani di rilocalizzazione e incentivi miliardari: Washington ha stanziato fondi ingenti per sostenere la produzione domestica.
Eppure, se l’obiettivo è chiaro, la sua realizzazione è tutt’altro che semplice. Molti analisti si chiedono se gli Stati Uniti siano pronti a sostenere una nuova stagione industriale in termini di forza lavoro, competenze tecniche, infrastrutture moderne e un sistema normativo flessibile. La risposta, per ora, è complessa. Un dato, tuttavia, è evidente: mancano i lavoratori. Secondo l’ultima rivelazione del Job Openings and Labor Turnover Survey, nel settore manifatturiero ci sono quasi 500.000 posti vacanti, una cifra che supera le normali fluttuazioni del mercato del lavoro e rivela un cambiamento strutturale profondo.
Negli ultimi decenni, la transizione verso un’economia dei servizi ha eroso il patrimonio di competenze industriali. Le nuove generazioni si sono orientate verso percorsi formativi lontani dalla fabbrica. Il risultato è che oggi, anche quando ci sono le risorse per rilanciare la produzione, mancano spesso le persone in grado di gestirla.
Per comprendere appieno le difficoltà, occorre uno sguardo storico. Le produzioni meno redditizie sono state delocalizzate in Paesi a basso costo del lavoro e con normative meno stringenti, una scelta economica condivisa da ampi settori della politica americana. Nel frattempo, gli Stati Uniti hanno costruito la propria ricchezza sull’economia dei servizi: finanza, tecnologia, consulenza, intrattenimento, che oggi rappresentano oltre il 70% del PIL nazionale, mentre i lavoratori manifatturieri sono solo l’8% dell’occupazione totale. Le restrizioni sull’immigrazione, sebbene in alcuni casi legittime, rischiano di aggravare ulteriormente la carenza di manodopera. Non si tratta solo di persone: è l’intero sistema Paese a non essere pronto.
Secondo la Report Card 2025 della American Society of Civil Engineers, le infrastrutture americane meritano un modesto “C”. Non è un fallimento, ma certo non infonde fiducia nel futuro. Strade dissestate, ponti obsoleti, porti congestionati e reti elettriche fragili sono sistemi inadeguati a sostenere una produzione moderna e tecnologicamente avanzata. Mentre il reshoring e la crescita dei data center creano una crescente domanda di energia, le infrastrutture logistiche ed energetiche arrancano, con aggiornamenti appena avviati.
Nel frattempo, resta aperta una contraddizione fondamentale: i materiali necessari per questa trasformazione – rame, grafite, terre rare – provengono in larga parte dalla Cina. Senza di essi, niente batterie, chip, reti intelligenti.
L’ironia è evidente: nel tentativo di ridurre la dipendenza da Pechino, gli Stati Uniti rimangono comunque legati a essa. Finché non saranno sviluppate fonti alternative, come l’accordo in fase avanzata con l’Ucraina, ogni grande cantiere americano sarà comunque connesso alla Cina.
Tra gli ostacoli più insidiosi figura la burocrazia. La lentezza nel rilascio dei permessi è incompatibile con l’urgenza della transizione industriale. Per questo l’Amministrazione sta spingendo per una semplificazione normativa. Le promesse, celebrate nel “giorno della liberazione” del 2 aprile, potrebbero restare sospese, soffocate da un apparato amministrativo inadatto alla nuova ambizione nazionale.
Cosa significa questo per gli investimenti? La buona notizia è che le opportunità non mancano. La carenza di manodopera potrebbe accelerare l’innovazione: automazione, intelligenza artificiale e robotica offrono soluzioni concrete. Attualmente, solo il 4,8% delle imprese manifatturiere utilizza applicazioni di AI, ben sotto la media nazionale dell’ 8,7% secondo l’Ufficio del Censimento. La posta in gioco è alta. Se gli Stati Uniti vogliono riconquistare un ruolo industriale di primo piano, non basta costruire nuovi impianti: devono essere “intelligenti”.
Stiamo entrando nell’era dell’economia fisica, dove torneranno centrali e cresceranno gli asset tangibili come reti elettriche, trasformatori e impianti di accumulo.
Non ci sono dubbi: la dipendenza dalla Cina ha spinto le economie occidentali a ripensare la propria struttura produttiva. Il reshoring non è più solo un semplice slogan, ma una necessità strategica. Anche in Europa, come negli Stati Uniti, si moltiplicano gli annunci: fabbriche che tornano, filiere che si accorciano, investimenti “patriottici” che promettono lavoro e autonomia. È la risposta immediata a una globalizzazione che ha mostrato tutte le fragilità, prima con la pandemia, poi con le tensioni geopolitiche. In questo scenario, la parola chiave è resilienza. La strada sarà lunga e complessa. La rinascita manifatturiera non è un’illusione, ma nemmeno una marcia trionfale. È un obiettivo che richiede coerenza e pragmatismo. Sarà il banco di prova per le democrazie: riportare la produzione a casa è solo l’inizio. Farlo in modo competitivo, sostenibile e duraturo sarà la vera misura del successo.