“La politica è l’arte del possibile, ma la fede è l’arte dell’impossibile.”
— Václav Havel
Il conclave e la delusione mancata
Lui doveva essere Papa, almeno secondo la narrativa circolata nei mesi che hanno preceduto il Conclave. Un’ipotesi che aveva infiammato le anime progressiste italiane, pronte a vedere nel cardinale Matteo Maria Zuppi non solo un pontefice, ma una vera e propria svolta ecclesiale. Eppure, al momento cruciale, sono mancati proprio i voti dei 18 cardinali italiani. Una beffa tutta interna al collegio cardinalizio tricolore, che ha costretto Zuppi a convergere su Leone XIV, il compromesso scelto tra le varie correnti.
La sua figura, troppo vicina a un’area culturale e politica ben definita, non ha convinto una parte dell’elettorato cardinalizio, probabilmente timoroso di vedere la Chiesa cattolica troppo identificata con una linea ideologica. Quella stessa vicinanza alla Comunità di Sant’Egidio, che lo ha reso il volto della Chiesa del dialogo e dell’accoglienza, è parsa più una zavorra che un vantaggio nella corsa al soglio di Pietro. Il sogno di un Papa “romano di Roma”, vicino agli ultimi e insieme alla borghesia progressista, si è infranto nella concretezza della geopolitica ecclesiastica.
L’incidente dell’8×1000 e il boomerang politico
Poi è arrivato lo scivolone. Zuppi ha accusato il governo Meloni di voler modificare i criteri dell’8×1000, salvo poi scoprire che il provvedimento era in realtà del governo Conte II, a guida giallorossa. Una gaffe che ha scatenato l’ironia del centrodestra e l’imbarazzo di una parte del clero. Eppure, la sinistra ha fatto subito quadrato, confermando che, nel bene o nel male, Zuppi è ormai percepito come un proprio riferimento morale e simbolico.
Demos, costola politica della Comunità di Sant’Egidio nel Pd, ha difeso a spada tratta il porporato. Anche le Acli si sono schierate al suo fianco, attraverso i propri esponenti territoriali, come Chiara Pazzaglia a Bologna. In Consiglio comunale, accanto al sindaco Matteo Lepore, figura Filippo Diaco, ex presidente delle Acli bolognesi e oggi fedelissimo “zuppiano”. L’episodio dell’8×1000, insomma, ha dimostrato più che un errore tattico: ha rivelato quanto sia forte il legame tra Zuppi e un pezzo rilevante della sinistra sociale e culturale italiana.
L’arcivescovo di Bologna come icona culturale
Da tempo il presidente della CEI è diventato un punto di riferimento per l’Italia progressista. Non solo per il suo stile pastorale sobrio, empatico, vicino alla gente, ma anche per il suo linguaggio inclusivo e per le posizioni su temi scottanti come migrazioni, giustizia sociale e pace. È noto il suo invito all’accoglienza dei migranti, più volte ribadito anche in contesti politici ostili. «Accogliere, accogliere, accogliere» è diventato quasi un suo mantra.
Zuppi ha saputo tenere aperto il dialogo con il centrodestra, almeno fino a un certo punto. Proprio per questo, l’attacco (poi smentito) al governo Meloni ha sorpreso molti. Forse, più che una dichiarazione pensata, è stata l’espressione di una pressione montante: quella della sinistra italiana, che vede in lui un faro in un deserto di leadership credibili. Non a caso, il cardinale sarà tra gli ospiti d’onore della “Repubblica delle Idee”, kermesse simbolo dell’area progressista, accanto a Elly Schlein, Giuseppe Conte e Maurizio Landini. Un parterre chiaramente schierato, dove la presenza di un alto prelato in abiti ecclesiastici non sembra più stonare.
Zuppi simbolo (suo malgrado) del “campo largo”
Durante il Conclave, circolavano meme con slogan come “La sinistra riparta da Zuppi”. Una semplificazione social, certo, ma che fotografa bene una dinamica: il cardinale non veste la casacca del Partito Democratico, ma il Nazareno e i suoi alleati lo hanno già arruolato de facto. Per molti, incarna una leadership “altra”, un’autorità morale capace di dare senso e coesione a un’area politica che, da sola, fatica a trovare una voce comune.
Cattolico sociale, massimalista il giusto, abile nel dialogo con mondi diversi – dai centri sociali ai nostalgici della Messa in latino – Zuppi è la sintesi di una Chiesa che va da Che Guevara a Madre Teresa. Una definizione che può far sorridere, ma che rende bene il perimetro fluido in cui il porporato si muove con naturalezza. È la “Chiesa jovanottiana”, dove lo spirito evangelico si mescola all’attivismo sociale e alla retorica dell’inclusione. Una formula che il centrosinistra sogna di fare propria per le prossime elezioni, anche solo per intercettare consenso etico in tempi di crisi identitaria.
Considerazioni finali
La figura di Zuppi è, al tempo stesso, un’opportunità e un paradosso. Opportunità per una Chiesa che cerca di uscire dal recinto dell’autoreferenzialità, aprendo dialoghi reali con il mondo politico e sociale. Paradosso, perché più si espone e più rischia di diventare un simbolo di parte, perdendo quella terzietà che dovrebbe contraddistinguere il ruolo di presidente della CEI.
Zuppi non è un politico, né vuole esserlo. Ma in un’Italia sempre più frammentata, dove la ricerca di figure autorevoli diventa spasmodica, il suo nome finisce inevitabilmente nella mischia. Questo lo rende vulnerabile alle strumentalizzazioni, ma al tempo stesso lo conferma come una delle poche personalità capaci di unire mondi opposti. In tempi confusi, è già molto.
Tuttavia, spingere troppo Zuppi dalla loro parte potrebbe rivelarsi un azzardo pericoloso anche per la sinistra stessa. Sbilanciare e politicizzare eccessivamente una figura che dovrebbe parlare al centro dell’elettorato e non solo alla sua ala più ideologica rischia di ottenere l’effetto contrario. È un po’ come caricare di aspettative una squadra troppo sbilanciata in attacco: si può finire travolti in contropiede, proprio come è successo all’Inter in quella famigerata giornata terminata con un drammatico 5 a 0.
E in politica, come nel calcio, il risultato finale è ciò che resta nella memoria. Ed è quello che conta davvero.