Più che un Canto del cambiamento, questo è un Grido. D’allarme. E arriva da New York, dove il prossimo sindaco sarà molto probabilmente deciso il 24 giugno, giorno delle primarie democratiche. A novembre si voterà, sì, ma chi vince la nomination Dem, in questa città, ha già mezzo mandato in tasca.
In mezzo alla calura pre-estiva si sta facendo largo, in modo allarmante, la candidatura di Zohran Kwame Mamdani, 34 anni, socialista dichiarato e deputato statale dal 2021 per il 36esimo distretto di New York. I sondaggi lo accreditano come principale rivale di Andrew Cuomo, ex governatore alla ricerca di una rivincita urbana. Eppure, più del piazzamento, è il profilo di Mamdani a inquietare.
Figlio della classe intellettuale cosmopolita, nato a Kampala, cresciuto tra Capetown e New York, cittadino americano solo dal 2018, Mamdani incarna la parabola delle élite post-nazionali: il padre è il noto accademico Mahmood Mamdani, politologo e antropologo a Columbia, con un piede ancora in Africa come rettore a Kampala; la madre è Mira Nair, regista indo-americana di successo. Una famiglia da copertina del New Yorker, più che da Bronx.
Appena sposato con un’artista siriana, Mamdani junior è un perfetto prodotto del salotto culturale progressista. E proprio come certi salotti, sogna di rovesciare le fondamenta del sistema senza sporcarsi le mani. Il nome “Kwame” non è casuale: è un omaggio diretto a Nkrumah, il rivoluzionario ghanese che trasformò il Ghana in uno Stato monopartitico e ricevette il Premio Lenin per la Pace.
Il vero problema non è tanto il programma, che sembra uscito da una sceneggiatura utopica: trasporti pubblici gratuiti; affitti bloccati; 70 miliardi in dieci anni per case popolari; asili gratis fino a 5 anni con educatori stipendiati come insegnanti; salario minimo di 30 dollari l’ora; cinque supermercati municipali per distretto con generi calmierati. Bengodi, ma col badge dell’ufficio comunale.
A preoccupare è il dogma ideologico che lo muove. La fede incrollabile che lo Stato – anzi, il Comune – possa e debba farsi carico di tutto, caricando ogni costo sulle spalle dei “ricchi”, categoria che nella prassi si estende a chiunque produca e non fugga per tempo. Già oggi lo Stato di New York perde residenti e rappresentanti al Congresso in favore della Florida. Con Mamdani a City Hall, il flusso diventerebbe esodo.
Eppure, potrebbe bastargli poco. Nelle primarie Dem del 2021, Eric Adams vinse con appena 403mila voti, pari al 50,5%. Kathryn Garcia si fermò a 394mila. Poi a novembre, Adams sconfisse il Repubblicano Curtis Sliwa con 754mila voti, su 1,15 milioni totali. La popolazione registrata al voto è di 5,6 milioni. I residenti oltre 8,8 milioni. Il prossimo sindaco sarà scelto, realisticamente, da un newyorkese su sette.
È qui che si apre il baratro: una minoranza attiva, ideologizzata, può indirizzare il futuro di una metropoli che dovrebbe essere il cuore pulsante dell’economia occidentale. Invece, rischia di diventare il laboratorio viziato di una sinistra che sogna Cuba con i grattacieli.
Chi non vota, in fondo, delega. E oggi delegare a Mamdani significa mettere la Grande Mela nelle mani di un’utopia marxista in salsa Brooklyn.
Dopo gli anni oscuri del de Blasio — il sindaco che andò in luna di miele a Cuba e riportò la città sull’orlo della bancarotta morale — New York ha bisogno di tutto fuorché di un sequel ideologico. Mamdani non è solo un’eco del passato. È il passato che torna, travestito da futuro.