Il primo ministro israeliano Bibi Netanyahu è uno schiacciasassi. Dallo scorso 2 marzo nella Striscia non entra più niente: Israele ha bloccato l’ingresso di cibo, carburante e aiuti dopo aver rotto il cessate il fuoco di otto settimane con Hamas, imponendo sulla Striscia l’assedio più lungo dall’inizio della guerra. Un assedio leggermente allentatosi negli ultimi giorni, facendo entrare quantità minime di aiuti alimentari, ma che di fatto continua. Parallelamente Israele ha ripreso bombardamenti e fatto rientrare a Gaza 5 divisioni, minacciando una nuova offensiva per riguadagnare il controllo totale della Striscia. Il premier Netanyahu ha infatti ribadito che “la guerra a Gaza continuerà finché la Striscia non sarà interamente sotto controllo israeliano” e ha introdotto, per la prima volta, lo sfollamento dei palestinesi come condizione per la fine del conflitto.
Netanyahu non molla di un millimetro e tuona contro l’Occidente, contro i pacifisti, tutti moralmente colpevoli, secondo il premier, di “aver fomentato l’opinione pubblica”, accusando Israele di commettere a Gaza crimini di guerra e contro l’umanità. Questo avrebbe creato le condizioni per l’uccisione a Washington dei giovani diplomatici israeliani Yaron Lischinsky e Sarah Lynn Milgrim. Per Tel Aviv la rioccupazione della Striscia è giusta, come lo stop agli aiuti umanitari per i civili palestinesi, e Netanyahu ha accusato Francia, Regno Unito e Canada di sostenere la creazione di uno Stato palestinese indipendente che, ha avvertito, “metterebbe in pericolo l’esistenza di Israele”.
Netanyahu e i suoi ministri hanno duramente criticato anche quegli israeliani che si oppongono alla prosecuzione della guerra a Gaza e alle sofferenze imposte alla popolazione civile palestinese. Tra questi, Yair Golan, leader del partito di opposizione “I Democratici”, che ha accusato il governo di commettere crimini di guerra e di “uccidere bambini palestinesi per divertimento”. A lui ha risposto il ministro del Patrimonio, Amichai Eliyahu: «Le accuse infondate di Yair Golan riecheggiano quelle dei nazisti… Yair, il sangue dei funzionari dell’ambasciata ricade su di te e sui tuoi alleati». Parole come pietre.
L’Europa sembra aver perso la pazienza. “Il 20 maggio, durante il Consiglio Affari Esteri – ha annunciato il portavoce dell’Ue per la Politica estera – l’Alta Rappresentante ha chiesto il parere degli Stati membri a seguito della richiesta dei Paesi Bassi in merito alla revisione dell’accordo di associazione Ue-Israele. Gli Stati membri si sono espressi in ampia maggioranza a favore della revisione. L’Alta Rappresentante ha deciso di avviare la revisione dell’adempimento”. La clausola era stata sollevata da tempo da Spagna e Irlanda, ma è stata l’adesione dei Paesi Bassi – storicamente vicini a Israele – a indicare un cambio di rotta. Durante il Consiglio Europeo convocato per discutere la richiesta dell’Aja, 17 dei 27 Stati membri si sono espressi a favore, tra cui anche Austria e Francia. Tra i contrari spiccano invece Italia e Germania. Ora spetta alla Commissione europea valutare come procedere con una revisione dell’accordo.
Da notare che, pur votando contro, l’Italia ha deciso di convocare alla Farnesina l’ambasciatore israeliano per protestare contro gli spari contro una delegazione diplomatica in visita a Gaza e non solo. Il segretario generale della Farnesina, Riccardo Guariglia, è però andato oltre dicendo all’ambasciatore Peled che “Israele deve interrompere le operazioni militari a Gaza, deve puntare sul negoziato politico e diplomatico per la liberazione degli ostaggi israeliani e per raggiungere un cessate il fuoco che possa far ripartire un processo di pace. Soprattutto Israele deve aprire immediatamente i varchi di accesso a Gaza per permettere l’ingresso massiccio di aiuti alimentari”. E quel “deve” ripetuto più volte è un messaggio di inusuale durezza.

L’Europa sta perdendo la sua pazienza. A Madrid il parlamento spagnolo ha avviato l’iter per imporre un embargo sulle armi a Israele, mentre “sanzioni mirate” erano state minacciate in un comunicato congiunto di Regno Unito, Francia e Canada, seguito dall’annuncio di Londra di aver sospeso i negoziati per l’accordo di associazione di libero scambio.
Parigi e Riad stanno poi elaborando un piano per disarmare Hamas, ma lasciare che mantenga l’influenza politica sulla Striscia di Gaza. L’obiettivo è quello di trasformare Hamas “in un’entità puramente politica che possa ancora svolgere un ruolo nel futuro governo palestinese”, al fine di rendere il gruppo terroristico più aperto al disarmo. Non solo. Il presidente francese Emmanuel Macron e il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman potrebbero tenere una conferenza congiunta alle Nazioni Unite il mese prossimo per promuovere la soluzione dei due Stati e per annunciare il riconoscimento unilaterale di uno Stato palestinese.
Ergo, nel vecchio continente e non solo qualcosa si muove. “Meglio tardi che mai, l’Europa – osserva Valeria Talbot, capo del Mena Center del think tank italiano Ispi – inizia a fare sentire la sua voce di condanna di fronte alla catastrofe umanitaria di Gaza, dove fame e distruzione sono una drammatica realtà e i pochi camion di aiuti consentiti negli ultimi giorni sono solo una piccolissima goccia nell’oceano… Sono segnali importanti, ma per essere efficaci occorre un unico e assordante coro europeo”. E soprattutto dovrebbero unirsi ad un’azione nello stesso senso dell’amministrazione americana, ora e sempre grande sponsor di Israele.
Donald Trump ha già mostrato segnali di insofferenza e la mancata tappa a Tel Aviv durante il suo recente viaggio in Medio Oriente pare essere un messaggio a Netanyahu. Che però ha poco da perdere e non si fermerà se non davanti a un fronte occidentale compatto. Un fronte che dà sì segnali di crescita, ma allo stato è ancora lontano dal materializzarsi come tale. Ancora una volta, quasi tutto dipenderà da Trump.