La capitale italiana torna a essere, ancora una volta, teatro di un confronto internazionale: i colloqui sul nucleare tra Stati Uniti e Iran, mediati dall’Oman, hanno raggiunto il loro quinto round, aprendo spiragli di progresso in una trattativa complessa e carica di implicazioni globali.
Le parole del ministro degli Esteri omanita, Badr Al Busaidi, risuonano come un auspicio e una responsabilità: costruire un accordo ” sostenibile e onorevole”.
Era stato lo stesso Al Busaidi, figura chiave e mediatore rispettato, ad annunciare la scelta di Roma sede di questo importante incontro.

La modalità scelta – quella della” navetta”, con delegazioni separate e comunicazioni veicolate dai mediatori – evidenzia tutta la fragilità e la complessità di questo processo.
Non ci sono strette di mano né immagini ufficiali, ma attese e parole misurate che attraversano stanze diverse.
Quarantacinque anni di silenzio diplomatico non possono essere cancellati in un giorno, ma Roma ha accolto segnali di un possibile disgelo.
Le relazioni diplomatiche dirette tra Washington e Teheran sono interrotte dal 1979, anno in cui il sequestro dell’ambasciata americana segnò la fine di ogni canale ufficiale. Eppure, oggi qualcosa si muove: il capo negoziatore americano, Steve Witkoff, ha avuto contatti diretti con il ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi.
L’obiettivo dell’Iran è raggiungere una nuova intesa con l’amministrazione di Donald Trump, lo stesso presidente che nel 2018 si era ritirato dall’accordo siglato nel 2015 da Barack Obama.
A quel tavolo erano presenti: Cina, Russia, la Gran Bretagna, la Germania e la Francia ( il gruppo E3 europeo), con il ruolo di mediatore affidato alla Rappresentante per la politica estera dell’UE, Federica Mogherini.
Teheran ha rispettato gli impegni presi per un altro anno dopo il ritiro unilaterale di Trump, ma successivamente ha iniziato a recedere, ricominciato infine ad arricchire in modo significativo l’uranio.
L’evento spartiacque è stata l’uccisione, nel gennaio 2020 a Bagdad, del generale Qassem Soleimani, potente e carismatico comandante dei Pasdaran.
Dai colloqui ospitati a Roma emerge un quadro che richiama con forza l’accordo del 2015, il JCPOA, Joint Comprehensive Plan of Action.
Teheran ha confermato un primo passo concreto: la riduzione temporanea dell’arricchimento dell’uranio al 3,67%, una soglia sia simbolica che tecnica, che segnerebbe un ritorno a una moderazione nucleare.
In cambio, il governo iraniano richiede l’accesso ai propri capitali congelati e il diritto di esportare petrolio, attualmente negato a causa dalle sanzioni, sebbene queste siano state parzialmente aggirate, in particolare a favore della Cina.
Nella seconda fase del piano, Teheran si impegna a porre fine all’arricchimento dell’uranio, mantenendo solo i livelli minimi necessari per usi civili, e ad accogliere nuovamente le ispezioni internazionali con pieni poteri da parte dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica. (AIEA) .
In cambio, Washington dovrebbe rimuovere l’intero apparato sanzionatorio rimasto e svolgere un ruolo attivo nel disinnescare la pressione europea. Gran Bretagna, Germania e Francia dovrebbero essere convinte a non attivare la procedura per sanzioni ONU, un rischio ancora pendente e destabilizzante.
La terza e ultima fase prevede la posta più alta. Per garantire che un’intesa non possa essere annullata con un cambio alla Casa Bianca, è previsto che il Congresso degli Stati Uniti approvi formalmente l’accordo. Questa mossa avrebbe un effetto vincolante e ridurrebbe il rischio che un futuro presidente — come accaduto con Trump nel 2018 — possa ritirarsi unilateralmente.
In parallelo, Washington dovrebbe assicurare a Teheran un pieno reinserimento nel circuito economico e commerciale globale. Da parte sua, l’Iran dovrebbe compiere un gesto concreto e simbolico: trasferire all’estero le sue scorte di uranio altamente arricchito. Il JCPOA del 2015 ne prevedeva il trasporto in Russia, limitando a soli 300 kg al 3,67% la quantità consentita sul territorio iraniano, oggi si parla di un paese del golfo.
Witkoff, pur esprimendo un cauto ottimismo, non nasconde la fermezza su un punto cruciale: l’arricchimento dell’uranio. “Nemmeno l’un per cento”, ha scandito.
A incontri precedenti aveva partecipato il direttore generale dell’ AIEA, Raphael Grossi, a dimostrazione del ruolo fondamentale dell’agenzia ONU nel verificare e monitorare ogni impegno assunto.
Tuttavia, oltre alla dimensione tecnica e diplomatica, emerge anche un tema di politica interna. In Iran, l’energia nucleare è considerata parte dell’identità nazionale, una bandiera che il regime agita per rafforzare il consenso e mostrare determinazione. Cedere su questo fronte significherebbe esporsi a critiche interne e rischiare una frattura con le componenti più radicali.
Khamenei rimane fermo sull’arricchimento e non ha altra alternativa. Il leader supremo iraniano è consapevole della necessità di un accordo sul nucleare, ma sa anche che non può permettersi di firmarne uno che venga percepito come umiliante.
Per Khamenei, un fermo stop completo all’arricchimento dell’uranio, anche per fini civili, significherebbe mettere in discussione la propria autorità spirituale e politica.
Una tale concessione potrebbe essere sfruttata dagli elementi più radicali del regime, in particolare dai Pasdaran, che potrebbero approfittarne per liberarsi di lui e insediare al suo posto un loro fedelissimo.
E in questo contesto, le parole di Khamenei contro le “richieste oltraggiose” degli Stati Uniti non rappresentano solo retorica anti-occidentale, ma il tentativo di preservare un fragile equilibrio di potere interno, forse per rilanciare con nuove condizioni.
Gli incontri a Roma potrebbero rappresentare una delle ultime occasioni per evitare una nuova escalation in Medio Oriente.
Secondo diverse fonti, Israele starebbe preparando un attacco su larga scala contro i siti nucleari iraniani, nonostante i colloqui i corso tra le delegazioni di Washington e Teheran.