In un momento in cui l’Unione Europa deve rafforzare la propria coesione di fronte a sfide complesse, a Bruxelles va in scena uno scontro tra Parlamento e Commissione europea che solleva interrogativi sulla tenuta democratica dell’architettura comunitaria. Al centro della disputa c’è il progetto “Security Action for Europe (SAFE)”, che punta a raccogliere fino a 150 miliardi di euro sul mercato per poi prestare i fondi agli Stati membri per investimenti nella difesa. L’operazione debito della Commissione è un elemento chiave del piano Rearm Europe ribattezzato “Readiness 2030”, che mira a mobilitare 800 miliardi di euro per rinforzare la difesa europea.
La Commissione ha presentato SAFE come una risposta pragmatica alla frammentazione del settore della difesa e come un passo decisivo verso una capacità comune d’intervento. A sottolineare questa necessità è stato di recente il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, secondo cui una vera difesa europea è un’esigenza ineludibile per garantire all’Unione un ruolo credibile, responsabile, coerente con le proprie ambizioni geopolitiche.
Tuttavia, non è il contenuto del piano a destare perplessità, ma il metodo scelto per attuarlo.
La Commissione, con il sostegno del Consiglio, ha scelto di utilizzare l’articolo 122 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea come base giuridica. Questo strumento, pensato per affrontare situazioni eccezionali, permette all’Esecutivo europeo l’adozione di decisioni rapide, riducendo i tempi di negoziazione e il coinvolgimento del Parlamento. Un meccanismo giuridico che molti eurodeputati hanno paragonato agli “ordini esecutivi” del presidente Donald Trump: provvedimenti unilaterali previsti dall’ordinamento, ma usati per eludere i contrappesi democratici. Per numerosi osservatori si tratta di una “scorciatoia pericolosa”, che mina la trasparenza istituzionale e il principio della rappresentanza democratica.
La presidente del Parlamento, Roberta Metsola, ha reagito duramente, contestando l’operato della Commissione e del Consiglio per aver escluso l’Assemblea dal processo decisionale. Ha denunciato la violazione del principio di equilibrio istituzionale, minacciando un ricorso alla Corte di giustizia dell’Unione Europea.
Il malcontento non è nuovo: il Parlamento europeo, unica istituzione eletta direttamente dai cittadini, lamenta da tempo una progressiva marginalizzazione, soprattutto nella gestione dei dossier di maggiore rilevanza politica.
La risposta dell’Assemblea è stata netta: con un voto unanime, sebbene espresso a scrutinio segreto, ha bocciato la strategia procedurale dell’Esecutivo di Ursula von der Leyen. Il Comitato giuridico del Parlamento ha rafforzato questa posizione, esprimendo un parere contrario: secondo i suoi membri, SAFE non soddisfa i requisiti necessari per essere considerato una misura straordinaria ai sensi del Trattato.
Di fronte a questo scenario, Metsola ha aperto alla possibilità di rivolgersi alla Corte di giustizia un’opzione mai esercitata prima, che potrebbe creare tensione tra le istituzioni comunitarie. Ha ribadito la gravità della situazione in una lettera al presidente del Consiglio dell’UE, António Costa, e alla presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, avvertendo che escludere il Parlamento significa mettere a rischio la legittimità democratica del processo decisionale dell’Unione.
Non è la prima volta che la Commissione utilizza questa procedura. L’articolo 122 era già stato impiegato durante la pandemia per l’acquisto dei vaccini e, più recentemente, per il pacchetto energia varato durante la crisi ucraina.
I numeri raccontano un’evoluzione significativa: nella legislatura 2019-2024, gli atti adottati con questa base giuridica sono triplicati rispetto al quinquennio precedente, sollevando interrogativi sulla trasformazione di un meccanismo d’eccezione in prassi ordinaria.
A complicare il quadro è la crescente divisione all’interno del Partito Popolare Europeo, di cui fanno parte sia Metsola che von der Leyen. In particolare, la prima accusa la seconda di aver violato l’accordo firmato nell’ottobre 2024, alla vigilia del voto di fiducia sulla nuova Commissione. In quel documento si prevedeva che ogni eventuale ricorso all’articolo 122 sarebbe stato pienamente giustificato e condiviso con il Parlamento. Non si trattava di un vincolo giuridico, ma di un impegno politico per ristabilire un rapporto di fiducia tra i due organi europei, in vista di una revisione dell’accordo interistituzionale.
Metsola, con il sostegno dell’Assemblea, ha chiesto alla Commissione di modificare la base giuridica del piano, abbandonando l’articolo 122 del Trattato a favore di una nuova proposta legislativa da discutere in Parlamento. Ma la tempistica è critica. Il testo, così com’è, è già al centro di negoziati tra gli Stati membri in sede di Consiglio. Cambiare significherebbe allungare i tempi e rimettere in gioco equilibri fragili, frutto di compromessi difficili.
La Commissione difende la legittimità della scelta: l’articolo 122 è previsto nei casi d’urgenza e la decisione finale spetta agli Stati membri, non al Parlamento.
La battaglia legale che si profila, se confermata dal ricorso, rischia di durare a lungo. La Corte potrebbe impiegare fino a due anni per pronunciarsi, bloccando nel frattempo un progetto strategico per la difesa e la credibilità dell’Unione. Ma il rischio maggiore non è tecnico, bensì politico. Una politica di difesa imposta dall’alto, senza il pieno coinvolgimento delle istituzioni rappresentative, rischia di perdere legittimità e alimentare tensioni. Forzare la mano oggi può sembrare una scorciatoia funzionale, ma potrebbe rivelarsi un errore strategico. La difesa comune europea deve nascere nel rispetto dei principi che ne giustificano l’esistenza: legalità, trasparenza e rappresentanza. Senza questi pilastri, l’Europa rischia di costruire la propria sicurezza su fondamenta fragili.