1. Un nuovo capitolo di una lunga ostilità
Nella notte tra il 6 e il 7 maggio 2025, l’Asia meridionale è sprofondata in una nuova crisi armata. L’India ha compiuto una serie di raid aerei su nove obiettivi strategici in territorio pakistano, tra cui località chiave nel Kashmir sotto controllo di Islamabad e nella provincia del Punjab. L’operazione, battezzata Sindoor, è stata presentata da Nuova Delhi come una “risposta necessaria” all’attentato terroristico del 22 aprile, costato la vita a 26 pellegrini indù nel distretto di Pahalgam, nello Jammu e Kashmir indiano.
L’India attribuisce l’attacco ai soliti sospetti: i gruppi Jaish-e-Mohammed e Lashkar-e-Taiba, da anni al centro di accuse di connivenza con le agenzie pakistane, in particolare l’ISI (Inter-Services Intelligence). A detta del Ministero della Difesa indiano, l’intelligence raccolta era “inequivocabile” e “imponeva un’azione diretta per impedire ulteriori stragi”.
2. La risposta del Pakistan: tra difesa e sfida
Il Pakistan ha immediatamente reagito, definendo i raid “una flagrante violazione della sovranità nazionale” e “un atto di guerra senza giustificazione”. Secondo le autorità locali, i bombardamenti hanno colpito anche aree civili: almeno 31 morti, decine di feriti, tra cui donne e bambini, due moschee distrutte. La versione indiana, al contrario, parla di un’azione “chirurgica” su centri di addestramento e depositi logistici, priva di danni collaterali significativi.
Islamabad ha risposto intensificando l’attività militare lungo la Linea di Controllo (LoC), bombardando postazioni indiane e abbattendo — secondo sue fonti — almeno cinque jet nemici. I dati restano controversi, ma il fatto certo è che si è tornati a uno scontro aperto su più fronti.
3. Lo spettro nucleare e la fragilità diplomatica
Ciò che distingue la crisi attuale da altre tensioni precedenti è la totale rottura del canale diplomatico. Entrambi i Paesi hanno richiamato gli ambasciatori e congelato i colloqui su sicurezza, commercio e gestione delle risorse idriche. In particolare, la sospensione del Trattato delle Acque dell’Indo — firmato nel 1960 sotto l’egida della Banca Mondiale — rappresenta un segnale estremamente allarmante: controllare il flusso dell’acqua, in una regione già provata dal cambiamento climatico, potrebbe diventare una leva strategica devastante.
Ancora più inquietante è l’ombra dell’atomica. Sia India che Pakistan possiedono arsenali nucleari operativi. Le dottrine militari di entrambi includono la possibilità di un primo utilizzo in caso di minaccia esistenziale. Sebbene al momento non vi siano segnali di mobilitazione nucleare, il clima politico e l’assenza di mediazione fanno temere un’escalation fuori controllo.
4. Il ruolo della comunità internazionale
La comunità internazionale si è mostrata preoccupata ma finora poco incisiva. Gli Stati Uniti hanno invitato “alla de-escalation immediata”, ma sono divisi internamente tra il sostegno strategico all’India e la necessità di non alienarsi il Pakistan, importante nella questione afghana e nei rapporti con la Cina. Pechino ha espresso “preoccupazione per la stabilità regionale” ma ha evitato condanne esplicite. L’Unione Europea ha lanciato appelli alla moderazione, senza però proporre iniziative diplomatiche concrete.
L’ONU, da parte sua, ha convocato una riunione straordinaria del Consiglio di Sicurezza, ma le divergenze tra i membri permanenti rischiano di renderla un’occasione sterile.
5. Un conflitto senza vincitori
Il Kashmir si conferma ancora una volta una delle regioni più instabili e pericolose del pianeta. Dai tempi della Partizione del 1947, che vide la nascita di India e Pakistan tra sangue e migrazioni forzate, quest’area è contesa, divisa e sfruttata da ambedue le nazioni come terreno di affermazione patriottica e religiosa.
Le vittime, ancora una volta, sono i civili: famiglie che vivono sotto la minaccia costante del fuoco incrociato, bambini cresciuti tra filo spinato, checkpoint e sirene antiaeree. L’illusione di una pace duratura, già fragile dopo la revoca dell’autonomia del Kashmir indiano nel 2019, si allontana ancora.
6. Prospettive: cosa accadrà ora
Il futuro immediato dipenderà dalla capacità di contenimento degli attori globali e, soprattutto, dalla volontà politica delle leadership di Modi e Sharif. Se prevarrà la logica della forza, la regione potrebbe piombare in un conflitto ben più esteso. Se invece si troverà spazio per il dialogo — magari con la mediazione di attori terzi come l’Arabia Saudita, la Turchia o l’Iran — potrebbe aprirsi uno spiraglio per una tregua.
Al momento, però, le armi parlano più delle parole. E la lezione di Marco Aurelio, che esorta a reagire con dignità e non con vendetta, resta drammaticamente disattesa.