Imperi e sistemi di potenza costruiscono la loro forza e durata su tre pilastri: sicurezza (strumenti tecnologici di difesa e offesa, militi, alleanze), economia (popolazione, produzione, commercio, moneta), cultura da proporre e/o imporre (miti, religione, ideologia, arti, etica, stili e modelli di vita). Quasi mezzo secolo fa Paul Kennedy spiegò in The Rise and Fall of Great Powers che solo il giusto equilibrio fra economia e armamenti mantiene in vita imperi e grandi potenze che altrimenti cadono inesorabilmente, in modo progressivo o repentino poco importa. In tempi più vicini, Joseph Nye ha sviluppato il valore del terzo pilastro, ammonendo gli USA sull’eccesso di fiducia nel primo e sul ritardo nel comprendere la rilevanza del terzo.
Nel più recente caso offerto dalla storia, l’Unione Sovietica, il Rise fu dovuto soprattutto al soft power dell’ideologia, mentre il Fall al crollo dell’economia e della fede nel comunismo. La potenza militare, a iniziare da quella nucleare, risultò irrilevante nel mantenere in piedi il sistema, che implose mettendo a nudo anche le miserie del pilastro sicurezza che per decenni aveva intimidito le democrazie liberali.
Nel provare a decifrare l’indecifrabile – l’arroganza mista a improvvisazione e dilettantismo della politica estera di Trump – appare evidente che né la lezione teorica di Kennedy e Nye né quella pratica del crollo sovietico abbiano lasciato il segno. Nei quasi tre mesi di presidenza, il Potus ha trasmesso alle opinioni pubbliche straniere l’inquietante immagine di un uomo che passa il tempo al pallottoliere, alias abaco come lo chiamò il matematico pisano Leonardo Fibonacci nel 1202 nel Liber Abbaci.
Riduce il commercio internazionale alla sottrazione del valore di merci in entrata e in uscita, così che, se l’abaco gli fornisce un risultato negativo, commina dazi ai presunti colpevoli salvo annullarli o rinviarne l’effetto perché qualcuno gli ricorda che l’economia globale è una rete a maglie strette: se tagli anche in un solo punto rischi lo strappo dell’intero ordito e in mano ti restano i brandelli, altro che mettere in riga i competitor e farli smettere di “fregarti”!
Fissa per gli alleati europei incrementi delle spese militari, senza esibire uno straccio di bussola strategica per la difesa integrata, così che si sappia per cosa occorra spendere e chi e perché debba farlo. Il pallottoliere somma i miliardi di dollari dei supposti acquisti europei di armi accumulate nei depositi statunitensi e tanto basta. Sperabile che qualcuno gli spieghi che gli europei le armi sono in grado di costruirsele da soli e che lo faranno se costretti, benché preferiscano spendere il denaro pubblico in politiche sociali e continuare ad acquistare l’indispensabile nel grande magazzino del warfare made in USA.
Per il futuro di Gaza martoriata dallo scontro tra Israele e Hamas, fa circolare l’idea dello sradicamento di una cultura e di un popolo da spiagge destinate, dai conti dell’abaco, alle delizie di un edificando turismo d’élite.

Al malcapitato presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che dall’alleato attende armi e intelligence per la resistenza all’aggressore russo, presenta il conto di 183 miliardi di dollari accumulato nel triennio di guerra, pretendendo, pallottoliere alla mano, litio e altre terre rare. Del litio, il minerale in cima alla lista della spesa statunitense in Ucraina, risultano esplorate quattro riserve, due in territorio sotto controllo russo – il deposito di Kruta Balka a Zaporizhia e la riserva Shevchenko nel Donetsk, due vicino a Polokhivske e Kopanki, con l’ulteriore Dobra annunciata come la più promettente. Si tratta di centinaia di milioni di tonnellate di riserve, 40 solo a Polokhivske, la miniera potenzialmente più grande d’Europa. Per lo sviluppo dei siti, occorre un grande progetto di collaborazione internazionale, concepito anche e soprattutto per sostenere la ricostruzione e la libertà di un Paese martirizzato dai russi, altro che l’abaco!
Stessa osservazione per i materiali strategici presenti nel territorio congolese: il deal fra Stati Uniti e Repubblica Democratica del Congo li può rendere moneta di scambio per un Paese che ha bisogno di aiuto per respingere gli attacchi dei paramilitari dell’M23 (braccio armato dell’Alleanza del fiume Congo) sospinti dal Rwanda. Le razzie e gli scontri si svolgono in particolare nella regione che circonda il lago Kivu, con in gioco lo sfruttamento del “columbo-tantalite” (sintetizzato in coltan) il minerale metallico formato dai due ossidi, fondamentale per i condensatori elettronici, utilizzato in cellulari e altri dispositivi come videocamere e playstation, indispensabile per la costruzione delle automobili elettriche così come per le industrie legate agli armamenti, allo spazio e alle telecomunicazioni. Il presidente Tshisekedi da Kinshasa fa sapere che se ne può parlare, ma l’accordo di principio va cifrato e l’abaco non basta: mentre i congolesi (gli ucraini?) vorrebbero investimenti americani di svariati miliardi di dollari per l’estrazione e processi produttivi in loco, il pallottoliere presidenziale prevede percorsi opposti, ovvero che si vada a investire negli Usa.
Vale la pena ricordare che, sui due teatri, l’Unione Europea procede con politiche di ben altra natura. All’Ucraina non cessa di fornire appoggio politico, militare ed economico, senza altre condizioni se non il mantenimento del regime democratico e il rispetto delle minoranze. Per il Congo, il Parlamento Europeo il 13 febbraio, con 443 voti favorevoli, 4 contrari e 48 astensioni, ha condannato la “violazione inaccettabile della sovranità e dell’integrità territoriale della RdC”, chiedendo la sospensione immediata del memorandum d’intesa tra Ue e Ruanda “sulle catene del valore sostenibili delle materie prime”.
Otto von Bismarck, che di politica internazionale ne mangiava parecchio, propose, riferendosi ai limiti imposti dalle leggi della natura e della storia, una considerazione che bisognerebbe pari pari mettere sul tavolo del Potus, tal che qui la si cita direttamente in inglese: “Man can neither create nor direct the stream of time. He can only travel upon it and steer with more or less skill and experience; he can suffer shipwreck and go aground and also arrive in safe harbors”.
La navicella della nazione statunitense ha bisogno, per durare in ricchezza e potenza e garantirsi i “safe harbors”, che al timone non vada l’arroganza di chi pensa di piegare e dominare il tempo, incapace di assecondarne il flusso così da viaggiarlo con abilità ed esperienza. A questo fine deve rientrare con urgenza nell’alveo del mos maiorum, il costume tramandato dai grandi presidenti che hanno scolpito la storia dell’Unione, fondandola non sullo spirito bottegaio, ma su intoccabili libertà interne e su alleanze esterne stabili e durature, reciprocamente vantaggiose perché costruite non sulla monetizzazione dei rapporti ma sull’intreccio tra interessi, ordine internazionale, valori condivisi e irrinunciabili.
Non ci sono scrocconi né profittatori, in quello schema, ma alleati che nel caso di controversie non si minacciano né si temono: si siedono, discutono anche con asprezza, ricercano e trovano un compromesso, e alla peggio s’affidano a un arbitrato. Quando si legge che l’Unione Europea ha disposto per i suoi rappresentanti che operano negli Stati Uniti di utilizzare soltanto cellulari usa e getta per timore di ritorsioni e spionaggio, si comprende che si è andati ben oltre.