Non sarà l’Anno Santo che sabato, alla vigilia della Pasqua, porterà Roma in primo piano, ma il probabile incontro nella capitale italiana delle delegazioni di Washington e Teheran per il difficile e complesso negoziato sul nucleare iraniano. Trump minaccia, il suo inviato speciale Steve Witkoff è molto diplomatico (presto sarà il nuovo ambasciatore USA in Israele) e l’Iran risponde cauto ma apparentemente disponibile a trovare un’intesa. Il problema vero, nello scacchiere mediorientale, è Israele, l’unico Stato nella regione da decenni possessore di armi nucleari e, come scrive il New York Times, Paese egemonico in mezzo al mondo arabo non suo. Egemonico, non integrato, e oggi, dopo la sua feroce guerra contro il popolo palestinese, ancora meno sopportato dalla maggioranza della popolazione araba, che sia sciita o sunnita.
Le cronache degli ultimi giorni segnalano una crescente protesta all’interno di Israele contro il suo premier, contro una politica mirata a salvaguardare gli interessi personali di Netanyahu e meno a riportare a casa i cittadini israeliani che furono presi in ostaggio nel feroce assalto di Hamas alle comunità ebraiche a ridosso della striscia di Gaza. Quel famoso 7 ottobre di due anni fa fu un fatto traumatico per gli israeliani ebrei di ogni colore politico. E le lettere firmate da migliaia di riservisti dei corpi corazzati, dell’aviazione, delle forze speciali e dei servizi segreti – Shin Bet e Mossad – sono chiare. “Lo Stato di Israele deve fare tutto il possibile per garantire la sicurezza e il rilascio di coloro che rimangono prigionieri… Netanyahu rimane indifferente alla tortura, alla fame e agli abusi che i nostri fratelli subiscono quotidianamente nella prigionia di Hamas”.
Più di 3.500 accademici israeliani hanno firmato una petizione simile che chiede la fine della guerra e il ritorno di tutti gli ostaggi. Non una parola, però, sui palestinesi di Gaza. Sui sessantamila o più morti, sulle centinaia di migliaia di feriti. Sulla distruzione della Striscia di Gaza.
Avi Shlaim, professore emerito di relazioni internazionali all’Università di Oxford, è tra gli storici più celebrati della storia moderna israeliana. È israeliano originario di Bagdad e come molti ebrei orientali si definisce “arabo-ebreo”. Di recente, è stato intervistato nella sua abitazione a Oxford da Sebastian Shehadi, giornalista indipendente e scrittore collaboratore de The New Statesman, rivista storica della sinistra britannica. Il quadro interno israeliano, la parte ebraica, naturalmente, è chiaro secondo Shlaim.
“C’era una spaccatura nella società israeliana prima dell’attacco di Hamas, sulla riforma giudiziaria – ha commentato Shlaim -, una spaccatura molto profonda che ha quasi portato a una guerra civile. Ma poi è arrivato l’attacco di Hamas e l’intera società israeliana si è completamente unita dietro questa guerra. Pensano che Israele abbia il diritto di fare tutto ciò che vuole indipendentemente dal diritto Internazionale e che chiunque accusi Israele di qualsiasi cosa è antisemita. Questo è il consenso in Israele oggi”.
Il futuro? “Credo che l’Apartheid nel XXI secolo non sia sostenibile a lungo termine – ha dichiarato Shlaim – e quindi che il Sionismo sia in procinto di autodistruggersi. Gli imperi diventano davvero violenti proprio mentre sono in declino e penso che questo sia ciò a cui stiamo assistendo ora: l’ultimo sussulto della violenza israeliana. Una volta che questo sarà finito, le fratture all’interno della società israeliana continueranno. Israele si indebolirà dall’interno e il sostegno esterno diminuirà. Questa combinazione di fattori porterà alla disintegrazione del Sionismo e del Colonialismo dei coloni. Israele è sulla strada dell’autodistruzione, ma non accadrà dall’oggi al domani. Ci vorranno ancora molti anni”.