La sospensione per tre mesi, annunciata da Trump il pomeriggio del 9 aprile, delle Tariffe Reciproche verso tutto il mondo, introdotte soltanto qualche giorno prima, non è solo una buona notizia di per sé. Le Borse hanno festeggiato, infatti.
Pur sapendo che la persona a capo della nazione più potente del globo è volubile e imprevedibile, è ovvio che le sue azioni e le sue dichiarazioni sarebbero sempre da prendere sul serio. E così era stato, con le conseguenze negative sui mercati che si sono viste.
Più importante del tamponamento della crisi (provvisorio, ma promettente) con l’avvio delle discussioni bilaterali, a mio avviso è quanto rivela il dietro-front sulla reale natura del leader. Trump fa la voce grossissima (anche stonata e sgradevole, a volte) per mostrare che fa sul serio. Il suo problema è poi non apparire un trombone che bluffa, ma un decisionista con le idee precise sui suoi obiettivi e sulla strategia per ottenerli. Oltre 75 Paesi si sono precipitati a chiedere incontri immediati per trovare soluzioni che soddisfino l’intento dichiarato dalla Casa Bianca di porre un rimedio all’attuale squilibrio delle bilance commerciali tra gli USA e i suoi partner. È onesto riconoscere che Trump ha raggiunto, quanto meno, il risultato di essere stato ascoltato. Ossia di aver aperto tavoli per discutere nuovi accordi che avranno soluzioni care all’America.
Ma Trump non è tornato prontamente sui suoi passi soltanto perché Wall Street e soprattutto l’impennata dei tassi sui titoli del Tesoro USA l’hanno spinto a dichiarare la tregua. Alle sue spalle si erano cristallizzati due schieramenti di consiglieri che da giorni non nascondevano la loro ostilità sulla strada da seguire. Da una parte Elon Musk e il ministro del Tesoro Scott Bessent, dall’altra il ministro del Commercio Howard Lutnick e il “consigliere senior” Peter Navarro.
Musk era arrivato a rendere pubblico il suo favore per un regime di “tariffe zero” tra gli USA e l’Europa, che peraltro per bocca della sua presidente Ursula von der Leyen si è dichiarata ufficialmente per questa soluzione. Bessent, da parte sua, è sempre stato il più attento interprete del vento rischioso dei mercati e l’esplicito “pompiere” delle tariffe, esprimendo ottimismo sull’avvio imminente delle trattative con i Paesi amici, a partire da Israele e dal Giappone.
Sull’altro versante, Lutnick e Navarro hanno vestito i panni dei falchi del protezionismo, sostenendo che le tariffe erano qui per restare ed erano il reale scopo di Trump. Lutnick, che sperava nel posto di Bessent, era stato “retrocesso” al Ministero del Commercio. E Navarro aveva persino pubblicamente attaccato Musk, definendolo un “assemblatore” e non un vero costruttore di auto made in USA. L’inventore della Tesla, che è anche il leader del DOGE (progetto amato da Trump), aveva risposto per le rime sbeffeggiando Navarro con l’epiteto di Peter Retarrdo (“ritardato”) e chiamandolo “un vero cretino, più stupido di un sacco di mattoni”. La portavoce della Casa Bianca ha tentato di sminuire lo scontro, sostenendo che quella di Trump è l’amministrazione più trasparente di sempre, che non nasconde i diversi punti di vista che i suoi membri suggeriscono al presidente. E le battutacce? Sono come quelle tra ragazzi nel cortile della scuola, ha spiegato.
È vero che soltanto in questo governo possono coesistere soggetti che si offendono senza ritegno, senza che faccia scandalo. Di Trump ne esiste uno solo. Un leader, cioè, che ha sdoganato nel suo gabinetto presenze contemporanee dal profilo tanto controverso e dalle personalità uniche e diverse: da Musk a Robert Kennedy, da Navarro a Tulsi Gabbard.
Ma questa è la notizia che conta davvero: nel momento critico, quando le sue politiche hanno rischiato di far deragliare la presidenza e l’America, verso una disastrosa recessione globale, Trump ha scelto il partito giusto nelle sue file. Vuol dire che, al dunque, sa anche ascoltare. E sa preferire le voci migliori.