“Tariffa è una delle più belle parole che ho mai sentito… Musica per le mie orecchie”. È una vera frase di Trump, e il copione che ne segue è stranoto. Lui minaccia dazi ad amici e nemici, i pundit e gli economisti firmano lettere allarmate sul disordine mondiale dei traffici, e …nemmeno 24 ore dopo il clamore rientra, la vita continua, e tutto sommato per gli americani qualche buona notizia rimane (almeno, per adesso!).
Il maggiore caso che ha occupato le news negli ultimi giorni sono le minacce di Trump di imporre il 25% di dazi sulle importazioni da Messico e Canada, e del 10% dalla Cina. I leader dei due paesi vicini ed alleati hanno reagito a caldo annunciando ritorsioni di pari peso. Si trattava di una reazione obbligata dei due governi per difendere la propria dignità nazionale, se non le loro economie. In realtà, è bastata una telefonata dalla Casa Bianca, prima alla presidente messicana Claudia Sheinbaum, e poi al primo ministro canadese Justin Trudeau, per sospendere le reciproche tariffe per un mese. Ossia, il tempo di sedersi al tavolo e perfezionare le concessioni verbali che, immediatamente, i due leader hanno reso pubbliche. Sheinbaum ha promesso che manderà 10mila soldati al confine con gli USA per dare la caccia alle bande di contrabbandieri di Fentanyl, la droga che semina la morte e che, prodotta per lo più in Cina, passa da qui per arrivare in Texas e Arizona. Idem per Trudeau, che ha accettato di impegnarsi fattivamente per bloccare, anche da nord, il traffico delle droghe killer.
Trump aveva preannunciato, in campagna elettorale e poi da presidente, che un suo obiettivo centrale era di salvare le vite di migliaia di americani vittime di questo mercato.
I critici di Trump possono anche sostenere che il flusso verso l’America delle droghe finirà solo quando gli americani non le useranno. È una tesi facile. Educare tutto il pubblico contro l’uso delle droghe è un miraggio illuministico, ma cominciare con il far arrivare un milione di pillole di Fentanyl invece che 10 milioni è un concreto passo per ridurre le vittime. E la volontà politica dei governi confinanti, “stimolata” con le minacce delle tariffe, può trasformarsi in decisioni operative e militari efficaci contro le gang di spacciatori. La stessa Cina, a sentir parlare di tariffe, ha riaperto i faldoni della Fase Due dell’accordo con gli USA, che era stato negoziato nel 2018 con Trump ma non aveva avuto seguito per l’arrivo di Biden.
Si vedrà come buttano le trattative. Ma sul ruolo maieutico delle minacce di Trump dovremmo ormai essere educati. Prendiamo Panama (per ora, e seguirà la Groenlandia).
Quando ha detto che gli Usa vogliono tornare a controllare il canale, costruito dall’America e regalato da Carter a Panama, “non escludendo azioni militari”, tutti a stracciarsi le vesti sul suo espansionismo violento, sul maltrattamento indecente di uno stato sovrano e sul rischio di una guerra. Poi ha mandato il segretario di stato Marco Rubio (ottima scelta, origini cubane, un moderato con saldi principi anticomunisti) a parlare con il presidente Raul Mulino. E che cosa è successo, in poche ore? Panama aveva concesso alla Cina la gestione di due porti, firmando un’intesa sul modello della Strada della Seta in Europa, quella che aveva ammaliato l’Italia dei Cinque Stelle (Giorgia Meloni si è svincolata da quel patto con Xi, e Trump la apprezza anche per questo!).
E la Colombia? Il presidente Gustavo Petro aveva regalato un sorriso agli anti Trump nel mondo quando aveva negato l’atterraggio ad un aereo militare USA pieno di deportati – tutti colombiani. Le immediate tariffe annunciate da Trump gli hanno fatto cambiare idea, e la Colombia poche ore dopo li ha accolti. E il Venezuela? L’inviato di Trump per le missioni speciali, Ric Grenell, atterrato a Caracas ha subito ottenuto il rilascio di sei americani ingiustamente in galera. E persino Maduro, vista la figura della Colombia, ha accettato di riprendersi i propri criminali.