L’intelligenza artificiale, in quanto prodotto dell’ingegno umano, è progettata per calcolare e ottimizzare, ma manca di quegli elementi che definiscono l’intelligenza organica: la coscienza, l’intuizione, l’emozione, il linguaggio e l’inconscio.
È proprio questa mancanza che segna il limite più grande delle macchine intelligenti. Sebbene le macchine possano apprendere e migliorare le loro performance autonomamente attraverso l’apprendimento automatico (Machine Learning), esse operano sempre entro i confini di un mondo binario, fatto di 0 e 1, lontano dalle sfumature, dalle ambiguità e dalla complessità del pensiero umano.
Questa è la sintesi estrema di un volume appena uscito: “Sull’intelligenza artificiale – Tra distopie, utopie e una possibilità” (Meltemi Editore, pag. 656), nel quale l’autore, Fulvio Palmieri, sociologo e politologo, tenta una strada ambiziosa confrontando puntigliosamente analogie e differenze fra queste due intelligenze che potrebbero anche entrare in conflitto, quella umana e quella artificiale. Palmieri utilizza il concetto di “epistemologia della rinuncia” per descrivere l’approccio delle IA: un metodo che elimina ogni interferenza emotiva, istintiva e inconscia che invece caratterizza il nostro modo di conoscere e comprendere il mondo. In questa rinuncia all’incertezza e alla creatività, l’IA ottiene una precisione e una velocità di calcolo ineguagliabili, ma al costo della perdita di ciò che rende il pensiero umano unico.
Ma prima ancora dobbiamo fare nostra una domanda fondamentale: l’AI è una balia o una matrigna? In altre parole: quando l’AI si dimostra essere una “balia amorevole” è perché ci supporta davvero laddove ne abbiamo bisogno (soprattutto nel campo della sanità e dello sviluppo aziendale), ma quando pervade la nostra vita getta la maschera e diventa una “matrigna cattiva”, quella stessa che oggi si è conquistata un posto d’onore perfino nei nostri smartphone, oppure che, grazie alla sua straordinaria capacità di tracciamento e di analisi predittiva, cerca di limitare la nostra libertà e ridurre l’autonomia individuale a favore di una regolamentazione basata su algoritmi.
La sfida, quindi, non è solo tecnologica, ma profondamente politica e filosofica: come gestiremo la nostra libertà e autonomia in un mondo dominato dalle macchine intelligenti? Quali saranno le nuove frontiere del diritto e della morale in un contesto in cui le decisioni potrebbero essere prese da entità che, per quanto avanzate, rimangono fondamentalmente non umane?
La relazione tra intelligenza umana e intelligenza artificiale, così come la dipinge Palmieri, è una dialettica complessa di limiti, analogie e differenze. Se da un lato l’AI rappresenta una proiezione delle nostre capacità logiche e computazionali, dall’altro essa manca della profondità dell’intelligenza umana, che deriva dalla sua interazione continua con il mondo e con la propria interiorità. L’uomo, dotato di un cervello che non solo calcola ma prova emozioni, immagina, sogna e sperimenta la coscienza, è ancora insostituibile in molte delle sue funzioni. L’intelligenza artificiale, invece, anche nella sua versione più avanzata, resta ancorata a un paradigma computazionale che non può riprodurre la complessità dell’esperienza umana.
Ora si parla di una nuova generazione di AI generativa legata a una sorta di “ragionamento”: se attualmente essa risponde immediatamente alle nostre domande, quella su cui si sta lavorando emula, in qualche modo, il procedere del ragionamento umano. Noi poniamo la domanda, arriva una prima risposta che però noi non vediamo perché l’AI si chiede (prima di noi) se la risposta è giusta e fa ulteriori verifiche, in un loop che alla fine dovrebbe offrirci una risposta verificata più e più volte.
Ma la sfida vera, avverte Palmieri, è quella “che ha il sapore dell’immortalità, il sogno perpetuo dell’uomo che, grazie all’algoritmo, metterebbe tutta la sua storia e quindi la sua memoria e, grazie a tecnologie quasi magiche, potenzierebbe memoria e intelligenza umana con dati artificiali immensi trascritti sull’algoritmo per potenziare ancora di più i dati organici”.
Tutto questo ci dà la misura di che cosa sarebbe l’immortalità: un algoritmo. Ma per coronare questo sogno, occorre pagare un prezzo altissimo: sacrificare il corpo, che vuol dire sacrificare sensazioni, piaceri, emozioni. Dice Palmieri: “Per la vita eterna qualcosa dobbiamo pur cedere. Ma davvero è eterna quella vita? La vita è una ricombinazione di geni che, attraverso la riproduzione sessuale, hanno dato origine alle specie. Ma l’algoritmo non si riproduce; tutt’al più, apprende senza riprodursi mai, perché non fa sesso. E allora, si incrina la presunta immortalità: senza scambi e ricombinazioni, l’algoritmo, il sogno che incarna l’immortalità, sarà noiosissimo perché rimarrà sempre lo stesso. E nulla esclude che anche di noia si possa morire”.