Siamo, noi giornalisti, gli ultimi dei Mohicani. O se preferite siamo tutti Generali Custer assediati a Little Bighorn e dunque pronti a subire un massacro. Ma noi non siamo così disposti a farci sopraffare da una parte dai blogger e dall’altra dall’Intelligenza Artificiale. Ecco dunque che il nostro lavoro giornalistico, indubbiamente minacciato dalle tecnologie, deve avere la capacità di trasformarsi senza perdere le sue caratteristiche.
Fake news da una parte, bot, troll, l’Intelligenza Artificiale che sta dimostrando di essere in grado di scrivere come e meglio di noi. Alcuni grandi Gruppi editoriali hanno già ceduto: non potendo vincere la battaglia con Open AI, hanno deciso di farsi pagare (quanto ancora non sappiamo) per cedere i propri contenuti coi quali ChatGPT si alimenta. Per certi versi è come pagare il boia perché ci recida la testa con un taglio netto facendoci soffrire il meno possibile e consentendoci, nell’attesa della mannaia, di guadagnare due soldini.
Ma le cose procedono, con o senza il nostro consenso. Ecco dunque che l’unica strada percorribile, al di là delle resa, è quella di sapersi adattare, di cambiare costantemente e, perché no?, inventandosi un nuovo giornalismo. Una nuova forma di giornalismo.
Se decido di dare in pasto a ChatGPT un po’ di articoli su un determinato tema e poi gli chiedo di individuarne di simili nell’infosfera, estrarli e riscriverli secondo uno schema (qui lo chiamano prompt), ChatGPT è bravissimo. O bravissima? Non so, a me piace pensare che l’IA sia femmina, ma è questione discutibile…
Ma che cosa non sa fare ChatGPT? Non ha occhi per vedere e dunque raccontare un fatto, non ha orecchie per ascoltare i racconti dei testimoni, non ha la curiosità di un giornalista, né tantomeno il suo fiuto, il suo intuito, quello che fa esclamare: ecco, questa sì che è una notizia! Se non c’è un essere umano a fare da testimone e, meglio ancora, se quell’essere umano è un giornalista, quell’evento è come se non esistesse.
I fatti esistono perché c’è qualcuno che li racconta. E quante storie esistono solo perché ne abbiamo dei racconti? Una per tutte: pochi sono i riscontri storici della vita di Gesù, ma quei pochi riscontri, uniti ai testi dei Vangeli, costituiscono una storia credibile, verosimile a tutti gli effetti (tralasciando ovviamente i risvolti soprannaturali). Ma anche l’assedio di Troia esiste solo in quanto raccontato da Omero, così come i preamboli della nascita di Roma sono affidati alle parole di Virgilio.
Partiamo allora da qui: alcuni anni fa gli editori scoprirono il data journalism, cioè quel tipo di inchiesta giornalistica basata sui dati, sul filtraggio e sull’analisi di grandi set di dati. Questa particolare forma di giornalismo rimarca il ruolo crescente dei dati numerici nella produzione e distribuzione dell’informazione nell’era digitale. Il che comporta una fusione del giornalismo tradizionale con altri campi, come la raccolta e visualizzazione dei dati, l’informatica, la statistica, “un insieme sovrapposto di competenze tratte da campi diversi”.
Il data journalism è stato adottato dai quotidiani che ormai sono soliti corredare qualunque storia con box numerici: in una pagina dedicata alle controversie giudiziarie di Donald Trump, uno dei più importanti quotidiani italiani faceva emergere un grande 4 (i procedimenti legali in cui è coinvolto l’ex Presidente), un 34 (i capi di imputazione per i quali è stato giudicato colpevole), un altro 4 (gli anni di galera che rischia).
Dobbiamo ricordarci che il buon giornalismo deve essere seducente: quando racconto una notizia, ho alcune frecce al mio arco. Il titolo, il sommario, l’occhiello, l’attacco del testo, i box… Ognuno di questi elementi deve possedere quel tocco di seduttività che costringerà il lettore a fermarsi su quella notizia. Il giornalista deve dunque essere malizioso. L’IA non può esserlo. Per capirci: se un essere umano può rendere erotico qualcosa, l’IA potrà solo renderlo pornografico, cioè la caricatura dell’erotismo.
Quale giornalismo, dunque? Una delle strade che vedo possibili è quella che porta il giornalista ad analizzare se stesso. È fare informazione partendo dall’informazione, scomponendola, smontandola e rimontandola. È raccontare il racconto dei media. È la possibilità di creare una meta-informazione, una iper-informazione che supera i limiti della notizia, arroccata in un qui e un dove e un quando. Il nuovo giornalista guarda dall’alto, si pone in una condizione di distanza che gli consente di avere un quadro di insieme. E riconquista la sua equidistanza dalle cose.