Fino a ieri, qui in Nevada, anzi a Eastern Las Vegas, l’ondata del “canvassing” sembrava inarrestabile, una costante di energia che avevo provato per la prima volta in Pennsylvania durante la campagna del 2008 per il confronto Obama/McCain. Anche lì si andava casa per casa, si capiva il paese, si usava forse meno tecnologia, ma si sentiva lo stesso il vibrare dei cuori, l’anticipazione per la possibilità storica che l’America potesse avere il primo Presidente nero o il primo Presidente reduce dalle stanze della tortura in Vietnam. Allora, in Pennsylvania andai con Kerry Kennedy, la figlia del candidato democratico alle presidenziali del 1968, ucciso a Los Angeles da un terrorista islamico. Con lei c’erano le sue figlie, Mariah e Michaela, e mia figlia Clio, ragazzine di 13 anni che volevano avvicinarsi alla politica e provare la gratificazione dell’attivismo, della partecipazione a un fenomeno che avrebbe inevitabilmente lasciato impronte nelle nostre vite.
Oggi, come allora, pensate alla forza che possono scatenare per strada centomila democratici disseminati nei sette stati incerti, fino a toccare i quattro angoli del paese per convincere i locali a votare. Stesse energie e determinazione fra i repubblicani, ma con obiettivi e tecniche diverse: raggiungere gruppi di interesse particolari, sfruttare i PAC, entità legali per la raccolta e distribuzione di fondi elettorali per raggiungere solo l’elettore giusto. Finita ieri l’ultima grande offensiva, oggi tutto è fermo. Tutto tace. Si vive solo in attesa, in questa attesa lunghissima che potrebbe non finire oggi e che ci dà la misura di quanto le elezioni presidenziali 2024 siano sentite sul piano emotivo, ancora più di quelle del 2008, perché in gioco non ci sono due persone diverse ma onorevoli: c’è di mezzo il destino della democrazia americana, c’è una popolazione spaccata in due, una metà per Kamala Harris, l’altra per Donald Trump. La tensione è forte perché è chiaro che comunque finirà questa notte, quando le urne saranno chiuse e i conteggi saranno completati (anche se potrebbe passare molto più tempo), ci sarà una svolta storica per gli Stati Uniti d’America: da una parte la prima donna alla presidenza che manterrà genericamente uno status quo transatlantico rassicurante. Dall’altra Donald Trump con le sue minacce di cambiare per sempre il volto benevolo della democrazia americana.
Non so se l’ultima grande tenace, determinata mobilitazione del voto americano, come ho visto negli ultimi giorni qui a Eastern Las Vegas, Nevada, uno dei 7 “swing states”, potrà cambiare l’esito del voto di oggi per la Presidenza americana. Di certo, chi partecipa ci crede. Capisce che la differenza tra chi vincerà o perderà potrebbe essere determinata da una manciata di voti. Per questo, la dimensione enorme della mobilitazione democratica per Harris, la passione, la partecipazione di tutti, da persone modeste a miliardari, tutti decisi a essere parte di questa nuova grande e drammatica avventura per la democrazia americana. E se i democratici, per mobilitare il voto, seguono la tradizione del porta a porta, i repubblicani puntano a sacche di voto più mirate e si sono appoggiati ai PAC, a gruppi di pressione che fanno il lavoro per proxy su obiettivi demografici molto precisi, a tavolino, con la partecipazione di 40.000 persone.
L’azione di mobilitazione democratica, quella più tradizionale, si chiama “canvassing”, un vero e proprio “intreccio” porta a porta. A Eastern Las Vegas, sono all’angolo di Hubbard Street con Halbert Street, un quartiere popolare ispanico della città del gioco, del peccato, del divorzio a buon mercato, del kitsch talmente estremo da diventare opera d’arte. A parte i volontari per la campagna Harris, che mi hanno accolto per partecipare alla loro missione, l’incrocio, ma direi l’intero quartiere, è deserto. Il mio compagno di squadra si chiama Oliver, è venuto da un altro stato per il fine settimana. Per strada ci sono 33 gradi a mezzogiorno. La gente è chiusa in casa davanti alla televisione con l’aria condizionata al massimo. Sono villette a schiera, tutte uguali, dignitose, abitate da persone con reddito medio-basso. Nel cortiletto anteriore della prima casa c’è una Harley Davidson nuova, bellissima, serbatoio rosso fiamma con decorazioni gialle. Spicca come simbolo del benessere in cui si trova questa nazione, nonostante inflazione e scontentezza generalizzata. Dietro alla moto ci sono un paio di bidoni da spazzatura di metallo, due piante moribonde, semiabbandonate, in vasi rotti, pavimentazione sconnessa, uno stenditoio vuoto, un contenitore di benzina di plastica rossa, unto e sporco. Il resto è simile per altre 50 villette, ogni tanto si sente un cane ringhiare furioso, nessuno parla inglese, molti dicono di essere immigrati illegali senza diritto di voto, c’è chi vota Harris e chi declina l’invito a parlare perché voterà Trump. Dal microsondaggio si capisce che in Nevada il voto sarà stretto, ma che Kamala potrebbe farcela.

La missione di chi sostiene Kamala Harris in Nevada ha raggiunto un obiettivo significativo: 100.000 case visitate, grazie all’impegno di migliaia di volontari e centinaia di membri dello staff, ben retribuiti. Si tratta di un apparato organizzativo più robusto e ricco rispetto a quello di Trump, esteso anche agli altri stati chiave come Pennsylvania, Georgia, Michigan, Wisconsin, Arizona e North Carolina, mirando a mobilitare oltre 800.000 potenziali elettori con l’aiuto di 63.000 volontari. I restanti 200.000 elettori da coinvolgere si trovano in stati generalmente sicuri per la presidenza, ma incerti per la Camera o il Senato. È importante ricordare che oggi si vota per tutto: Presidenza, l’intera Camera dei Rappresentanti e un terzo del Senato.
A Long Island, per esempio, nel distretto di Suffolk County, John Avalon corre per un seggio democratico alla Camera, con il canvassing democratico focalizzato sulla sua vittoria. Trump, d’altro canto, ha scelto di puntare su macchine esterne, concentrandosi su un numero limitato di voti decisivi negli stati oscillanti. Inoltre, ha conquistato il “ciclo mediatico”: un’apparizione come quella di guidare un camion della spazzatura, come ha fatto, fa notizia. È su questo fronte che Harris fatica a competere. Tuttavia, il canvassing presidenziale è cruciale: ogni stato contribuisce con un certo numero di grandi elettori, per un totale di 538. Per vincere, Harris o Trump devono ottenere almeno 270 voti elettorali.
La California, il più popoloso stato con 40 milioni di abitanti, garantisce 56 voti elettorali, che andranno certamente a Harris. Il Texas, con i suoi 30 milioni di abitanti, ne esprime 40 che andranno a Trump. Attualmente, entrambi i candidati hanno circa 222 voti elettorali, a ciascuno mancano 48 per raggiungere la soglia fatidica. È qui che entrano in gioco i sette stati incerti: Nevada (6 voti), Pennsylvania (19), Michigan (15), North Carolina (16), Arizona (11), Wisconsin (10) e Georgia (16), per un totale di 93 voti che ancora mancano all’appello. È su questo terreno che si combatte la battaglia tra il canvassing democratico e l’azione mirata repubblicana.

Ieri pomeriggio, il conteggio finale per il Nevada ha confermato il successo della missione: i volontari hanno bussato a 100.000 porte. Hanno utilizzato un’app nazionale chiamata Minivan, che permette di leggere la composizione familiare e l’orientamento politico di ogni nucleo. Sebbene i dati possano essere imprecisi, è possibile annotare nuovi nominativi e aggiornare in tempo reale la banca dati democratica.
In questo contesto, dove la Presidenza potrebbe decidersi su poche migliaia di voti in due o tre stati chiave, la mobilitazione è essenziale per la vittoria. La macchina di Harris, infatti, è molto più organizzata e potente rispetto a quella di Trump, con oltre 2.500 coordinatori elettorali pagati in 353 uffici distribuiti su tutto il territorio nazionale.
Un enorme sforzo, sia in termini di investimento umano che infrastrutturale. Alla fine di queste elezioni, oltre al nome del vincitore tra Harris e Trump, sapremo quale approccio avrà prevalso: il tradizionale porta a porta di Harris o il metodo meno convenzionale di Trump. In ogni caso, sarà una pagina significativa nella storia di questa nazione leader dell’Occidente.
L’attenzione sarà particolarmente rivolta alla Pennsylvania, con i suoi 19 voti elettorali chiave, difficile non ripensare al suo ruolo nelle elezioni del 2008. Questa Pennsylvania, culla della democrazia americana, continua a trovarsi al bivio per quanto riguarda i diritti civili e le dinamiche economiche e demografiche. Qui risiedono circa 630.000 portoricani con diritto di voto. Come reagiranno dopo essere stati definiti “spazzatura” a un evento di Trump? Rappresentano l’8% della popolazione dello stato e potrebbero cambiare l’ago della bilancia elettorale. La notte di voto vedrà il governatore democratico molto popolare, Josh Shapiro, alla guida, mentre decine di comunità colpite dalla crisi del settore manifatturiero guardano alla promessa di Trump di tariffe e reshoring con rinnovato interesse.
La Pennsylvania è un mosaico che ho cominciato a esplorare con mia figlia e le figlie delle dinastie americane Kennedy e Cuomo. Kerry Kennedy, la nostra guida, è stata sposata a lungo con Andrew Cuomo, figlio del leggendario Mario, governatore di New York. Fu un candidato presidenziale mancato nel 1992, ma nel 1984 alla Convention di San Francisco incantò il pubblico con uno dei discorsi più appassionanti della storia politica americana, “A Tale of Two Cities”, evidenziando la sperequazione tra la “Shining City” di Ronald Reagan e le città americane che soffrivano. Un messaggio che risuona ancora oggi, considerati i temi di disuguaglianza economica e la difficoltà di trovare lavoro adeguato che hanno dominato questa campagna elettorale 2024.

Nel 2008, durante le primarie democratiche, andai a Clairton, un paesino della Pennsylvania Occidentale. Barack Obama, in competizione con Hillary Clinton, descrisse queste comunità, segnate dalla disoccupazione e dalla mancanza di speranze, come “bitter”. Le sue parole suscitarono reazioni forti, a cui Clinton rispose con attacchi serrati, accusandolo di elitismo. Andai a Clairton per cercare di capire se fosse giusto offendersi per quelle affermazioni. Alexis Barna, allora 27enne, barista in un locale locale, non si sentiva offesa, ritenendo che Obama “confondesse luoghi comuni con tradizioni radicate”. In un’area dove si sentiva forte la cultura del fucile e della pistola, gli elettori, un tempo democratici, ora adorano Trump.
Il capolavoro di Michael Cimino, “Il Cacciatore”, con Robert De Niro e Christopher Walken, racconta una comunità industriale che viveva nel benessere, prima che il modello industriale americano crollasse. Oggi, a Clairton, la popolazione è scesa da 25.000 a poco più di 6.000 abitanti. La fabbrica di coke offre lavoro a 2.000 persone, ma solo 200 occupati sono locali. La mancanza di opportunità e le condizioni di vita precarie contribuiscono a un’immagine desolante.
Clairton rappresenta il tipico paesino americano in crisi, abbandonato a se stesso. Qui Trump ha trovato la sua base. Molti abitanti non vedono alternative, preferendo restare legati a una terra che non offre più prospettive. In un contesto in cui la Pennsylvania era un tempo un baluardo per le Fortune 500, oggi ne ospita solo 23.
La storia di Clairton e la sua evoluzione sono emblematiche del distacco dei Democratici da una parte cruciale dell’elettorato. Chi accusa Kamala Harris di essere inadeguata dovrebbe considerare gli errori di Obama. Nonostante le critiche, Harris ha fatto meno gaffe, anche se è stata accusata di mancanza di carisma e leadership. Eppure, Obama ha navigato situazioni ben più complesse, e ha trovato la via per la Casa Bianca.
In quel lontano 2008, quando ormai Obama aveva vinto le primarie e correva per la Casa Bianca, ci trovammo per il canvassing con Kerry Kennedy a West Chester nel cuore dello stato, a Ovest di Philadelphia, con le tre ragazzine, Mariah, Michaela e Clio e con Kerry che portava la torcia dei Kennedy per Barack Obama. Suo padre, Robert Kennedy, fu il mentore ideologico dei diritti civili in America, ucciso 56 anni fa da un fanatico arabo/islamico, pochi mesi dopo l’assassinio di Martin Luther King e tre anni dopo quello di Malcom X, altro leader per i diritti civili, anche lui ucciso da fanatici islamici. Se crediamo che oggi il paese sia polarizzato, dovremmo di nuovo guardare indietro con maggiore realismo agli assassinii politici di quegli anni. Kerry vuole ce le sue figlie, Cara, Mariah, Michaela, ricordino il nonno. La tenacia e l’ottimismo dei Kennedy, perché con la conquista di quella contea repubblicana, Chester County, 500mila abitanti, Obama sarebbe arrivato a dichiarare la sua vittoria a Grant Park, a Chicago, dove il partito democratico si disintegrò nel 1968. Li’ Obama celebro non solo la vittoria della presidenza, ma la rifondazione dello stesso partito. Ricordo che David Axelrod, capo della campagna di Obama mi disse: «Vorremmo avere un mandato chiaro, vorremmo sfondare al Sud e restituire ai democratici i figli e le figlie che l’avevano abbandonato».
Nel 2008 la battaglia per esorcizzare gli incidenti di Grant Park, gli spari della polizia sui pacifisti, la vittoria di Richard Nixon e l’avvio del dominio ideologico repubblicano sul baricentro politico del Paese, cominciava al numero 543 di E Gay Street. Erano i quartieri generali democratici di West Chester, uno degli 85 uffici della campagna Obama in Pennsylvania. Popolazione: 20mila abitanti allora, 18mila oggi anche se resta il villaggio più importante della contea. C’era gia’ allora un’organizzazione impressionante, solo volontari. Un centro coordinamento di sette persone, un desk per le reclute all’ingresso, con cinque persone, 26 addetti ai telefoni per mobilitare la base e preparare il terreno alle missioni di persona. Arriva un autobus di 50 persone da New York ed è Kerry Kennedy a fare il comizio per spiegare cosa dovranno fare e per trasmettere loro una passione non diversa da quella che abbiamo visto a Eastern Las Vegas. Sono venuti anche per lei. La sua presenza era stata annunciata. E hanno trovato quel che cercavano. Quando Kerry parla del padre, della missione, del cerchio simbolico che stava per chiudersi, quando racconta storie di grande umanità, di dedizione, di passione inesauribile, molti avevano le lacrime agli occhi. Poi, gambe in spalla partiamo anche noi, a piedi, con le figlie, a fare canvassing, a mobilitare il voto, casa per casa, su Franklin, su Barnard, su Miner, su Locust, seguendo una lista dettagliata che ha fornito l’organizzazione elettorale con un semplice documento cartaceo, ben diverso dal Minivan dei nostri giorni.
Concordiamo di discuetere insieme dello stato del Paese, della storia, di quel momento così simbolico, così magico per l’America e per il resto del mondo. Ma allora come ora c’era un forte realismo: «Non è mai fatta fino a quando non si conta l’ultimo voto – mi diceva Kerry – McCain è più forte di quello che sembra. Non possiamo abbassare la guardia fino all’ultimo. Preferisco essere scaramantica». Scaramantica e realista. Kerry era stata una sostenitrice di Hillary Clinton: «Perché la conoscevo, perché avevo lavorato con lei; perché credo sia importante arrivare alla presidenza di una donna. Molte ferite di quella stagione delle primarie così drammatiche si sono rimarginate, ma non è stato facile». Sapevamo che Obama non avrebbe avuto necessariamente la vita facile se fosse arrivato alla Casa Bianca: «Eredita un’America in guerra in due Paesi diversi, angosciata dalla più grande crisi economica e finanziaria dai tempi della Grande depressione. Non sappiamo che piega potranno prendere gli eventi. Ma sappiamo che i repubblicani lo attenderanno al varco: i primi due anni saranno di fuoco». Questo era il 2008. Familiarità con sedici anni dopo? Secondo Kerry, all’inizio non ci sarebbe stato il tempo per «ricostruire una coalizione di stampo rooseveltiano”. Ci sarebbero state decisioni continue da prendere, la soluzione di problemi pratici che potrebbero non essere risolti. Kerry non era neppure d’accordo con chi dice che la coalizione repubblicana è allo sbando, mi diceva: «Ripeto, la battaglia sarà dura. La gente dimentica che come presidente le tue possibilità di avere un impatto forte sull’economia sono limitate, eppure, come vediamo in questi giorni con Bush, se le cose vanno male c’è un solo colpevole, la Casa Bianca. Per questo prego che parta con il piede giusto».
E
abbiamo provato a immaginare allora in un momento la vittoria di Obama e il suo straordinario significato: «Il passo in avanti sarà monumentale – mi diceva Kerry – perché significherà che ogni americano, ogni afroamericano potrà diventare presidente. Pensiamo a quanti ostacoli ha dovuto superare per arrivare dove è arrivato».
Poi Obama vinse e fece storia. E non c’e’ dubbio che l’America deve gran parte di questo al padre di Kerry. Tenne duro con le riforme contro le discriminazioni razziali, trovò un alleato importante in suo fratello John. Ho rivisto Kerry qualche settimana fa, e’ venuta a chiacchierare con me al Gruppo Esponenti Italiani, una non profit a New York. «Mio padre ha cominciato al dipartimento per la Giustizia – ripetendo pensieri non diversi da quelli di 16 anni prima – Allora c’era ancora la segregazione. In metà degli Stati un matrimonio misto era illegale, scuole separate, autobus separati, ristoranti separati. Mio padre cominciò a imporre che gli impieghi statali fossero offerti anche ai neri. Tirò persino le orecchie al vicepresidente Johnson, dicendogli che doveva fare di più nel suo staff».
Se pensiamo a quegli anni ci accorgiamo di quanto fossero all’avanguardia i genitori e i nonni di Obama, sempre pronti a varcare nuove frontiere, senza che fosse automatico farlo e quanto sia all’avanguardia e coraggiosa Kamala Harris pronta a rompere il soffitto di vetro la dove non ci riusci’ la bianca blasonata Hillary Clinton. «Vedi, allora c’erano molte forme di protesta, c’era la disobbedienza civile, l’agitazione, il disordine, la dimostrazione. Mio padre diceva che la migliore forma di disobbedienza civile la si sarebbe avuta con l’applicazione dei diritti civili. E nel 1968, 40 anni fa, prima di essere ucciso fece una previsione, disse: fra quarant’anni avremo un presidente afroamericano. Il primo cerchio si e’ chiuso con puntualita’. Il secondo con un Presidente donna si chiudera’ nel 2024».
Ma torno anche ai ricordi del 2008. Con Kerry sedici anni prima eravamo giunti al canvassing dell’ultima tappa. Sarebbe rientrata a casa sua a Bedford, nel Connecticut, tre ore di macchina. «Vedi il cartello? Questo quartiere – mi diceva ancora – è stato fondato nel 1865 da un gruppo di donne afroamericane, ex schiave, poco dopo la guerra civile. Ma puoi immaginare che cosa poteva essere per una ex schiava trovare la forza per costruire una comunità libera? E puoi immaginare che cosa significa per chi ci abita oggi avere la possibilità di votare il primo candidato afroamericano della storia alla presidenza. È una cosa da brividi. Mi ricorda la poesia di Langston Hughes: Let America be America again, Lasciate che l’America torni ad essere l’America, la terra che ancora non è stata, la terra dove ogni uomo è libero, il povero, l’indiano, il nero, io, che abbiamo fatto l’America col sudore e col sangue, con la fede e il dolore. Le cui mani alla fonderia, al trattore nella pioggia, riportano indietro la potenza del nostro sogno». Versi ancora attuali nel 2024. La storia si muove sempre piu’ lentamente di quanto dovrebbe.