E così siamo quasi arrivati a novembre. A quel novembre che ogni quattro anni ci fa dire l’America è a un bivio, le elezioni sono importanti anche per chi americano non è, queste poi lo sono ancora di più per tante ragioni. E ci sono i sondaggi che alla fine dei loro calcoli complicati sempre un testa a testa dichiarano, perché altrimenti lo spettacolo s’affloscia. E gli stati chiave, vuoi mettere, che basta un pugno di voti in Pennsylvania e passi dalle stelle alle stalle in una notte. E i bravi bravissimi inviati, disperati per l’enormità del paese e delle mille storie da raccontare che provano a dire, guardate qui tra i nativi dell’Arizona qualcosa si muove, oppure qui, che gli operai del Michigan, a trovarli, sono stufi di raccontare che si sentono abbandonati da Washington o ancora le donne afroamericane o i latinos o i pensionati ricchi e cattivi della Florida o gli immigrati che sfidano il Rio grande o i disperati del fentanyl che chiedono solo una dose a chiunque, purché sia.
Il racconto americano ogni quattro anni si gonfia a dismisura, si moltiplica, prende il volo come una mongolfiera colorata e noi a guardare. Titoli copertine esclusive, dà a tutti la possibilità di proporre una storia, di offrire una prospettiva, di trovare un ragionamento nuovo per catturare l’attenzione su quello che sta per accadere, ogni quattro anni, il primo martedì di novembre. E poi ci sono gli analisti che sviscerano i temi, conta l’inflazione dice uno, sono tutti arrabbiati, no da tempo gli americani sono impauriti ma dall’immigrazione, risponde un altro. E l’aborto si mescola con la Corte Suprema, le armi con la scuola, la libertà di dire e di fare viene usata come una clava da tutti menando un po’ a caso di qua e di là.
Questo, diciamo, è quasi sempre stato il gran copione delle elezioni americane. Però, naturalmente, ci sono gli ultimi otto anni che hanno aggiunto il sapore della sfida finale con l’irrompere dell’impensabile diventato realtà: un uomo che comincia dai casinò e dai programmi tv e che diventa presidente. Che in quattro anni spaventa il mondo per la sua totale instabilità. Che alla fine perde la Casa Bianca ma non si rassegna e organizza un assalto al Congresso. Che mente spudoratamente senza che accada mai nulla. Che riduce lo storico partito repubblicano a semplice zerbino dei suoi stivali e torna a candidarsi. Che vorrebbe gli stessi generali di Hitler. Che promette la più grande deportazione di massa di immigrati nella storia del paese. Che vuole usare l’esercito contro criminali e manifestanti, mischiandoli in un solo mazzo in nome di una sicurezza che assomiglia sempre più a una dittatura. E soprattutto, che metà dell’America ormai sembra seguire come un pifferaio magico, dovunque. E di fronte a quest’uomo diventato il peggiore dei supereroi sta l’altra America, che le sta provando tutte.
Riesce a convincere il vecchio presidente a farsi da parte, si stringe come può attorno all’unica persona che realisticamente sembra potercela fare, si impegna tra divisioni e paura in una campagna per difendere l’anima di un paese che forse l’ha già perduta. Non era facile prima, non è facile ora in questi ultimi giorni -basterebbe solo discutere di pace e guerra per immaginare quanta fatica ci mettano i ragazzi dei campus silenziati dalla polizia a votare per una candidata che non riesce a dire a Israele di fermarsi- eppure ci stanno provando, porta a porta, rockstar e vecchi senatori, attivisti socialisti e repubblicani moderati. E giornalisti increduli, che dopo mesi di inchieste e pezzi per spiegare il pericolo che sta correndo il paese si ritrovano il loro editore che sceglie di non dire da che parte sta il loro giornale, che per il Washington Post è come se si fosse spenta la luce in redazione e non si riesce più a leggere la scritta che campeggia davanti la sala riunioni e dice “la democrazia muore nell’oscurità”.
Questo è il vero pericolo all’orizzonte, che il mondo si adatti all’idea che possa tornare il peggiore dei supereroi, quello cattivo. Già si sentono da questa parte periferica dell’impero le voci realiste di chi dice che in fondo l’America non cambia mai, chiunque sieda nell’ufficio ovale della Casa Bianca. Venitelo a raccontare poi quando dirà che Putin e Netanyahu in fondo sono brave persone e che facciano quello che vogliono perché la sua America ha altro a cui pensare. Allora si che sarà troppo tardi.