Tento di ricapitolare i sentimenti che ho provato in questo anno che sta per giungere all’anniversario più incendiario per ogni propaganda sul tema, il 7 ottobre.
Comincio proprio da quel giorno per dire che assieme all’incredulità per una cosa fino ad allora ritenuta impossibile, quella mattina provai orrore per la crudeltà che l’attacco di Hamas aveva rivelato. Rapire e fare ostaggi era un obiettivo azzardato ma logico nella guerra delle contropartite, ma quella morte e quella violenza che si lasciarono dietro svelavano una ferocia inutile e inaudita che spezzava ogni parola.
Poi a mano a mano che arrivarono dettagli il sentimento comune, almeno nel mondo in cui vivo, fu di solidarietà con quel paese colpito al cuore. Praticamente tutti tra noi, dico Italia Europa America destra sinistra, perfino l’Onu, che avremmo più tardi sentito definire palude dell’antisemitismo, ci sentimmo vicini a Israele e giudicammo legittimo che rispondesse a quella atrocità, che si difendesse. Molti di noi speravano che Netanyahu ascoltasse i consigli di Biden a non fare i loro errori dopo l’undici settembre, e per qualche giorno in effetti sembrò che Israele stesse realmente ragionando su quale fosse la risposta migliore da dare.
Poi cominciarono invece inesorabilmente i giorni di Gaza. I giorni, le settimane in cui a ogni dichiarazione di prudenza lanciata da noi (sempre quelli di prima) questo Israele rispondeva con parole ed opere sempre più feroci. È iniziata così una danza macabra in cui Biden (e noi dietro in coro) chiedeva un cessate il fuoco e Bibi lo rassicurava a parole e poi moltiplicava le bombe e i morti su quella disgraziata striscia di terra. Rivedo come in una patetica galleria le dichiarazioni dei nostri politici che gli chiedevano moderazione, combinando in un gioco di equilibrio nei pochi secondi utili di un tg, il diritto a difendersi, l’appello a risparmiare i civili, la necessità di un cessate il fuoco, e i più bravi anche i due stati per tutti.
I giorni passavano e la danza diventava sempre più un gioco ipocrita tra noi e loro. Noi a dire fermatevi e loro a rispondere ancora un poco e vedrete che alla fine andrà meglio per tutti. Sono stati i mesi dei morti a migliaia a Gaza, degli aiuti impossibili, dei moli costruiti e abbandonati, dei giornalisti ammazzati. Sono stati i mesi in cui il sentimento che ormai serpeggiava tra noi era difficile da esprimere in pubblico perché era quello dell’impotenza. Chi tra noi non ha provato imbarazzo per il vecchio Biden che ripeteva siamo a un passo dalla tregua, e poi invece questo Israele e il suo governo alzavano la posta per rendere impossibile ogni accordo. Il coro degli analisti si sforzava a spiegare il perché delle mosse di Netanyahu senza voler vedere la cosa più semplice, dichiarata ad alta voce dai suoi ministri, che cioè per questo Israele vivere in sicurezza significa vivere da soli e con il deserto attorno. Quindi guerra a Gaza ma anche guerra a nord nel Libano e un domani guerra a Teheran e poi chissà.
Veniamo così ai giorni dei cerca persone che esplodono a migliaia per accecare e mutilare i miliziani di Hezbollah, e pazienza per quelli che stavano con loro al mercato o per strada. Poi sarebbero venuti gli omicidi mirati di Nasrallah e del suo stato maggiore, che tanto mirati non sono se per eliminarne venti hanno fatto più di mille morti con bombe che sfondano palazzi fino alle fondamenta.
E qui, di fronte a questo ennesimo salto di qualità della guerra, il nostro sentimento è cambiato ancora e si è diviso in sottospecie, per alcuni si tratta ormai di rassegnazione, per altri di affidarsi all’idea che Netanyahu sta vincendo e se sta vincendo allora aveva ragione. Sono quelli che nei talk show dedicano ore a spiegare la prodigiosa supremazia tecnologica e militare di Israele senza fermarsi, nemmeno per un retorico minuto di raccoglimento, a ricordare che ormai alla fine di quest’anno in quel fazzoletto di terra avremo contato quasi cinquantamila morti, milioni di sfollati e di altrettanti senza patria il cui destino -altro che due Stati- è svanire nel nulla.
E se volete la mia declinazione del sentimento attuale vi dico che aggiungerei anche la sana paura di avere come alleato (ma questo Israele ci considera ancora alleati?) un paese che ormai non si fida più di nessuno, che divide il mondo tra lui e tutto il resto, che considera amici solo quelli che fanno quello che dice lui. Senza se e senza ma. E allora prepariamoci alla pioggia di propaganda dei vincitori, un anno dopo l’atroce sette ottobre.