Che cosa sta accadendo nella campagna presidenziale USA? I numeri parlano di un evidente capovolgimento di scenario. Soltanto un mese fa Trump era davanti a Biden per 3 punti percentuali nella media dei sondaggi curati dal sito Real Clear Politics (RCP), imprescindibile punto di riferimento per chi cerca di sondare il trend dell’umore dell’elettorato. Poi, entrata Kamala Harris sulla scena, persino David Axelrod, che era stato il consigliere principe di Obama durante le campagne vittoriose del democratico afro-americano nel 2008 e nel 2012, aveva detto qualche settimana fa che “questa è ancora una elezione che sta a Trump di perdere”. Tanto era favorito, sottinteso.
Oggi, alla vigilia della Convention di Chicago che la consacrerà ufficiale candidata del partito di Biden, Harris ha scavalcato Trump nella stessa media di RCP, con il 47,8% contro il 46,7% per il repubblicano. Un punto di per sé poca cosa, se si considerano i precedenti del 2016 e del 2020. Il 13 agosto 2020, infatti, Biden era davanti a Trump per il 7,4%, ma poi ha vinto con 4,5 punti di distacco (51,3% contro 46,8%). Il 13 agosto 2016, addirittura, Hillary Clinton era davanti all’ “esordiente” Trump per il 6,8%, ma poi è finita battuta. Il suo vantaggio si era ridotto al 2,1% nel reale voto nazionale di novembre, e il 48,2% che prese nel voto popolare, contro il 46,1% per Trump, non le bastò per vincere: perse nella conta degli stati swing decisivi alla conquista del Collegio Nazionale.

Questi dati storici, però, sono l’unica nota positiva con cui può consolarsi al momento il repubblicano: il momentum favorevole di cui aveva goduto nei giorni successivi all’attentato in Pennsylvania in cui ha sfiorato la morte si è completamente spento. Il pendolo del favore popolare è ora dalla parte di Harris. Può suonare paradossale che il personaggio politico, per tre anni e mezzo “maltrattato” nei sondaggi nazionali e anche in quelli degli aderenti al suo stesso partito, oggi sia sugli scudi. Ma il “miracolo” politico è ovvio, ed è per ora il risultato di una felicissima, per l’ex senatrice californiana, confluenza di fattori.
- Gli elettori democratici erano angosciati dall’essere rappresentati da Biden, dopo il fiasco del dibattito del 27 giugno alla CNN, e avrebbero accettato chiunque al suo posto: è noto che, Obama in testa, erano state pensate dai dirigenti DEM tutte le possibili alternative a Kamala. E’ stata l’inevitabile inerzia istituzionale a portarla dove è ora: bypassare una vicepresidente era arduo, ed essendo lei donna e nera era impossibile.
- Kamala è giovane, rispetto a Trump, e offre una immagine di novità personale, di donna piacente e sorridente: il ghigno che aveva contraddistinto il suo profilo, e che era stato considerato da tanti un handicap perché si accompagnava alla vacuità dei suoi discorsi, oggi è diventato un plus.
- I media del mainstream sono subito saltati sul carro di Harris, e garantiscono un lavoro efficace nel sostenerla, sostanzialmente nell’assecondare il progetto di “riscrivere” il suo passato politico inventando una candidata che piaccia ai moderati. Non più liberal, ma centrista.
- Starebbe alla campagna di Trump di far conoscere la vera Harris al pubblico. Ma Trump non ha nelle sue corde la capacità di parlare a chi non è già – interamente – d’accordo con lui. Anzi, ha la propensione di moltiplicare nemici pure tra i repubblicani, come ha fatto attaccando recentemente il governatore della Georgia, accusato di non aver trovato nel 2020 voti che non c’erano. E questo è il fattore pro Harris che conterà di più nel dare corpo al pronostico di Axelrod.