Chi di democrazia colpisce, di democrazia perisce?
Per un partito, il Democratico, che aveva puntato tutte le sue carte contro Trump accusandolo di essere una minaccia alla democrazia, il “colpo di stato” interno che le élite stanno architettando da settimane, senza successo, è la doverosa vendetta della Storia, con la S maiuscola.
La Storia, infatti, sa benissimo che ci sono paesi democratici e paesi che non lo sono, perché vivono sotto un regime tirannico. Un metro alla buona per dividere gli uni dagli altri è seguire i flussi migratori. Essendo istintivamente portata a capire che cosa sia la “democrazia”, senza spaccare il capello in quattro come facciamo noi in America, la gente fugge da Cuba e dal Venezuela, ma anche dalla lontana Russia e dalla lontanissima Cina per riparare negli Stati Uniti. A milioni. Cercano la libertà – politica, religiosa, artistica, culturale, economica – e sanno, o almeno sperano, di trovarla qui.
L’avvertimento, quindi, è che è sconsigliabile usare le parole a sproposito. Dare del tiranno a Trump “per quello che farà da presidente” è un trito esercizio propagandistico pre-elettorale a cui nessuno crede, nemmeno nella sinistra comunista che di dittature se ne intende. Ma anche chi accusa di autoritarismo anti-democratico i dirigenti del partito Democratico perché vogliono cambiare cavallo prima del voto, sa di forzare il tono polemico dell’attacco per un fine politico. L’allusione l’ha fatta lo stesso presidente nella sua lettera ai colleghi del Congresso lunedì 8 luglio insistendo che spetta a lui guidare la sfida a Trump.
È vero che Biden, con i suoi 14 milioni di voti presi dalla California alla Florida durante le primarie e i caucus di partito, e i 4 mila delegati con il mandato di farlo ufficialmente il candidato presidenziale a novembre, ha queste frecce al suo arco. E ieri, nelle due conferenze stampa tenute alla fine del meeting della Nato, otto mesi dopo quella precedente, il presidente, paradossalmente, ha rafforzato la sua posizione. Ha fatto quasi un bis del fiasco del 27 giugno nel dibattito con Trump alla CNN, incespicando sulle parole, troncando le frasi, scambiando Trump per Kamala e Putin per Zelensky. Ma tanto bassa era l’asticella che era difficile non superarla. Ormai, quando lo vediamo su un palco (rarissimamente) siamo tutti più partecipi al dramma della sua eloquenza che attenti al contenuto di ciò che dice (e che capiamo qua e là, a tratti).
La realtà è strana. Ogni giorno è uno stillicidio di deputati che, soppesati i sondaggi del proprio collegio, escono allo scoperto chiedendo a Biden di ritirarsi: sono quasi una ventina (su 435 in tutta la Camera). Eppure vediamo la sua determinazione aumentare, puntellata peraltro da esplicite manifestazioni di supporto: le ultime, dei sindacati e del caucus degli afro-americani, per esempio.
A mio avviso, Biden ha ancora delle chance di essere il primo nome del ticket Democratico sulla scheda elettorale, almeno fino a quando lo smottamento che si sta materializzando nei sondaggi non sarà un fiume in piena: in quello del Pew Research Center diffuso oggi Trump ha il 50% delle preferenze contro il 47% di Biden, rispetto al 49% contro il 48% di aprile.
Barack Obama, Nancy Pelosi, Chuck Schumer sono nel marasma, ma se rimuoveranno Joe lo faranno solo con il suo consenso, e comunque con una decisione politica che sarà democratica nella sua essenza: un partito ha il diritto di adattare le sue procedure interne, prima, durante e dopo la Convention, secondo quella che verrà reputata la convenienza politica del momento. Poi, ne subirà le conseguenze politiche sul piano del consenso e della credibilità. Per la conclusione della telenovela “Biden sì Biden no” bisognerà insomma attendere ancora qualche giorno, o qualche settimana, o i quattro mesi che mancano al fatidico 5 novembre.