La sentenza della Corte d’Appello di New York che ha annullato una delle condanne per reati sessuali contro Harvey Weinstein, l’ex produttore della Miramax, avrà conseguenze profonde e non solo a livello giudiziario. E questo anche se Weinstein non torna libero – sarà trasferito in California dove è stato condannato per un altro stupro – e se la procura di New York intende istruire un nuovo processo.
Nel 2017, quando le prime accuse contro Weinstein (fra le protagoniste c’era anche l’attrice italiana Asia Argento) cominciarono a emergere e diventarono un fiume in piena, l’hashtag #MeToo diventò lo strumento con cui donne di ogni età e condizione rivelavano sui social gli abusi subiti e spesso si rendevano persino conto per la prima volta di averli subiti. A distanza di sette anni, è necessario ricordare questo dato fondante del movimento: serve a dare voce alle donne che non hanno denunciato la violenza, o che sono abituate, come quasi tutte lo siamo, a normalizzare i comportamenti predatori – dallo stupro domestico alla palpata in autobus alla frase volgare sul luogo di lavoro che sembra una battuta (“ma dai, si scherza”), o che sono paralizzate di fronte alle molestie, o pensano di averle provocate, o non osano dire di no (al potente di turno ma anche all’amante troppo insistente).
La sentenza di New York crea un problema al movimento #MeToo, non solo perché le vittime dovranno tornare a testimoniare in un nuovo processo rivivendo il trauma. In punta di diritto, la decisione – presa 4-3 dai magistrati – dovrebbe essere una tutela per l’imputato: in primo grado non sarebbe stato lecito far ascoltare alla giuria le testimonianze di molte donne le quali affermavano di essere state molestate da Weinstein, ma che non erano parte in causa nel processo (che infatti si teneva solo per tre specifici casi).
Ronan Farrow, il giornalista del New Yorker che ha fatto scoppiare lo scandalo Weinstein, scrive oggi che questa sentenza impatterò anche sui processi a Donald Trump per il denaro pagato per far tacere Stephanie Clifford, alias Stormy Daniels, sulla relazione che avevano avuto. Trump deve rispondere di 34 capi d’imputazione per frode, ma il giudice Juan Merchan ha ammesso anche prove che riguardano altri pagamenti. Saranno giudicate valide? Farrow ricorda che la questione si rifà alla cosiddetta regola Molineux, da un processo del 1901, e dettaglia i cinque casi in cui una giuria nello Stato di New York può considerare testimonianze che non siano direttamente legate al processo in corso: in sostanza solo se devono dimostrare l’identità dell’imputato o il movente o l’intenzionalità del crimine.
È ovvio che i margini di valutazione sono ampi, e infatti 3 giudici della Corte d’Appello su 4 nel caso Weinstein avevano ritenuto equa la valutazione del magistrato di primo grado di far parlare le donne in aula anche se il caso non era istruito per loro.
Ma usciamo dal caso giuridico. Weinstein è assurto a simbolo dell’arroganza del maschio potente perché era in effetti in grado di decidere della carriera di moltissime persone, e perché oltre cento donne lo hanno accusato di varie forme di violenza, aggressione sessuale e molestie. La sentenza di New York dice che quelle donne in quell’aula non avevano diritto di parola. Oggi, quelle donne si sentono umiliate, e provano esattamente quello che tante vittime di stupro hanno provato in un’aula di tribunale: “chi me l’ha fatto fare?”
E dunque la questione è sociale, non solo giuridica. A prescindere da quanti anni passerà in carcere Weinstein – o Bill Cosby o tanti altri accusati di aver praticato le assunzioni via divano – quello che interessa davvero è smantellare una struttura sociale che abusa delle donne, e non solo nello spettacolo: chiarire che non è un problema che riguarda poche mele marce e arroganti, ma tutto il mondo in cui viviamo, anche nei progrediti paesi occidentali. Soprattutto, che le donne tutte prendano coscienza di cosa significa subire un abuso, cosa significa consenso, e abbiano la forza di dirlo a voce alta, nei tribunali come al bar o dentro casa.