Le analisi dei giornalisti spesso pongono più interrogativi che risposte specialmente quando gli eventi esaminati sono così distanti dai comportamenti abituali degli analizzati. “Come è possibile?”, fu la prima domanda che mi fu fatta la mattina del 7 ottobre dello scorso anno mentre era ancora in corso il brutale e micidiale attacco sferrato dai militanti di Hamas alle basi militari e alle comunità israeliane nel Negev. Riposi subito: “Forse presunzione” – (sentirsi superiori ai nemici nell’arte della guerra) – “forse arroganza” – (i nemici sono degli incapaci e basta riempirli di soldi per tenerli buoni). Il popolo israeliano e il mondo dovrà attendere la fine della guerra di Gaza, e delle numerose inchieste che seguiranno, per sapere, forse, la verità.
Ieri, un’analisi su Haaretz, quotidiano di sinistra israeliano, intitola “Due omicidi, stesso problema: Israele non ha pensato alle conseguenze”. E aggiunge: “L’IDF si sta preparando per una risposta all’attacco sul complesso dell’ambasciata iraniana a Damasco e sembra che le possibili conseguenze dell’uccisione di membri della famiglia di Ismail Haniyeh a Gaza non siano state considerate profondamente”. Giorni fa a Damasco il generale iraniano Mohammad Reza Zahedi è stato assassinato in un’edificio appartenente all’ambasciata iraniana, insieme a sei membri del suo staff. Mercoledì scorso, l’aeronautica israeliana ha attaccato un’auto a Gaza che trasportava tre figli e tre nipoti di Ismail Haniyeh, il capo dell’ufficio politico di Hamas, che vive in Qatar. Tutti e sei i passeggeri sono stati uccisi.
Scrive Haaretz, “I due attacchi hanno qualcosa in comune. Entrambi presentano iperattività non supervisionata sullo sfondo del torpore politico di Israele. Più di sei mesi dopo il massacro del 7 ottobre, Israele sta trovando difficile ottenere una vittoria militare che contrappeserebbe strategicamente parte del danno inflitto dal disastro, e non è ancora vicino ad alleviare il terribile disagio delle famiglie dei 133 ostaggi (molti dei quali sono morti)”.
E ancora: “Nell’attacco attribuito a Israele a Damasco, è probabile che i professionisti abbiano fatto pressione dal basso per agire; a Gaza, la decisione è stata presa a un livello intermedio… In entrambi i casi, sembra che non sia stato pensato in modo sufficiente al pieno significato dell’atto”.
E siamo sull’orlo di quello che potrebbe diventare uno dei più devastanti conflitti dopo quella finita con le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Nel suo editoriale di ieri il New York Times, dopo mesi di cautela e fiancheggiamento alla politica israeliana, si legge : “Gli Stati Uniti hanno coperto le spalle di Israele, diplomaticamente e militarmente, attraverso decenni di guerre e crisi. Le alleanze non sono relazioni a senso unico, e la maggior parte degli israeliani, compresi gli alti comandanti militari israeliani, ne sono consapevoli. Eppure Netanyahu ha voltato le spalle all’America e alle sue suppliche, creando una crisi nelle relazioni tra Stati Uniti e Israele quando è in gioco la sicurezza di Israele e la stabilità dell’intera regione”.
Netanyahu è il capo del governo democraticamente eletto di Israele ma, bisogna chiedersi, nell’affrontare un’analisi della situazione, se è tutta colpa sua o se molti altri leader, razionalmente o per tornaconto personale hanno portato avanti – e continuano a portare avanti – la politica seguita da “Bibi”. È possibile che nessun ministro israeliano, nemmeno quelli che hanno intrapreso la via della politica dopo brillanti carriere militari, abbiano denunciato errori e pericoli della via imboccata dal premier e dai suoi alleati di governo? Sono anni che vanno avanti le operazioni di colonizzazione israeliana della Cisgiordania per rendere sempre più impossibile la creazione di uno stato palestinese accanto a Israele. Sono anni che i governi israeliani permettono ai dirigenti di Hamas di portare a Gaza milioni di dollari con cui pagare i palestinesi che hanno lavorato per costruire oltre 500 chilometri di strada-cunicoli sotto la “striscia”. Forse, un giorno, i militari ci spiegheranno per quale motivo strumenti moderni capaci di rilevare i resti di intere città dell’antichità non li hanno, quanto meno, messo in guardia.
Leggendo l’editoriale del NYTimes e molte altri analisi e commenti di questi lunghissimi mesi di guerra e morte in Medio Oriente, viene da chiedersi perché si è atteso così a lungo prima di fermare le armi. O almeno costringere Netanyahu e i suoi ministri o una parte consistente di chi va e viene con Washington offrendosi come futuro a delineare, con precisione, un dopo-guerra possibile. Netanyahu non vuole uno stato palestinese e, lo ha fatto capire, farà di tutto per impedire la sua creazione: anche andare avanti con il massacro dei palestinesi e possibilmente allargarlo alla Cisgiordania, dove si autorizzano giorno dopo giorno nuovi insediamenti dei coloni e superstrade per collegarli aggirando e bloccando villaggi e antiche città palestinesi.
Andiamo oltre. All’indomani del attacco di Hamas a Israele, il leader delle forze armate di Tel Aviv aveva fatto capire che intendeva attaccare e distruggere Hezbollah in Libano. Fu fermato dalla Casa Bianca ma un attacco massiccio israeliano contro il partito-armata libanese resta all’ordine del giorno; come è sicuramente tra le speranze di Netanyahu vedere gli Usa trascinati in guerra contro l’Iran e la sua risposta contro Israele per gli assassini mirati, come quello avvenuto distruggendo una sede diplomatica a Damasco.