È stato correttamente rilevato che almeno due elementi “accidentali” hanno contribuito a corroborare le condizioni ottimali per il successo della feroce azione di Hamas in terra d’Israele, lo scorso 7 ottobre. Il primo – l’aver sguarnito la frontiera con Gaza per rafforzare la vigilanza in Cisgiordania – ha ricevuto attenzione. Sul secondo – la spaccatura in due della società israeliana, causata da scelte del governo – si è riflettuto di meno. Eppure, solo il primo elemento può essere ritenuto errore tattico, emendabile in futuro.
La divisione della società israeliana è invece elemento di struttura: nata negli ambienti culturali d’opposizione, allargatasi a un’opinione pubblica preoccupata dell’attacco frontale del governo a principi base della democrazia, ha prodotto, tra il 2022 e il 2023, un’onda d’urto nella quale si sono ritrovati anche pezzi di istituzioni, comprese quelle preordinate alla sicurezza nazionale.
La frattura si era prodotta sulla riforma della giustizia, nella fase in cui stava per diventare legge dello stato. A fine marzo 2023, sospendendo il processo legislativo fino alla successiva sessione della Knesset (dopo la Pasqua ebraica), era stato lo stesso Benjamin Netanyahu a spiegare la sospensione provvisoria con il rischio di “guerra civile” e il senso di “responsabilità nazionale”.
Quattro mesi dopo, in luglio, avrebbe ritenuto di poter essere meno responsabile e rischiare la “guerra civile”: fa approvare dal parlamento in prima lettura la modifica alla clausola di ragionevolezza e toglie così ai giudici il potere di valutare la “ragionevolezza” di misure prese da governo e funzionari eletti. Con proteste mai viste in Israele, protagonisti centinaia di migliaia di cittadini e soprattutto più di 4mila riservisti delle Forze Armate (IDF), l'”altra” Israele rigetterà il cambio di paradigma politico imposto dall’alleanza destra religiosi.

Su una società votata – almeno fin quando non accetterà di regolare in modo responsabile e giusto la questione palestinese – al warfare permanente, venne a pesare il macigno dell’adesione di una fetta significativa di IDF al blocco antigovernativo. Mai prima Israele aveva visto una protesta simile dei militari. Israeli Defense Forces non è solo ben organizzato, disciplinato e con una tradizione di fedeltà al governo di turno; fin dalla proclamazione dello stato è uno dei pilastri di Eretz Yisrael, costretto a tal ruolo dai ripetuti attacchi armati subiti dal paese nella sua esistenza e dalla necessità di proteggere coloni e kibbutz.
Si tenga presente come è regolato, in Israele, il rapporto tra cittadino e stato in materia di difesa: il servizio militare è obbligatorio per i cittadini sopra i 18 anni, poi gli uomini hanno l’obbligo di addestrarsi alcuni giorni l’anno da riservisti sino al compimento dei 40 anni, e in tanti proseguono a farlo volontariamente anche dopo.
Il dissenso dei riservisti – garanzia di funzionamento della macchina, visto il loro numero (425mila), rispetto agli effettivi in servizio (161mila) – oltre a rendere evidente la spaccatura politica, indeboliva pesantemente i meccanismi di sicurezza nazionale.
Si erano trasferiti all’interno delle Forze Armate contrasti politici che fanno sempre bene a restare fuori dai meccanismi di difesa. Se i primi corrispondono a interessi e ideologie parziali, i secondi devono identificarsi con il bene supremo dell’unità. Evidente che l’intervenuta rinuncia dei riservisti all’addestramento annuale volontario era arrivata a violare il tabù della difesa patriottica.
La gravità degli effetti non era sfuggita a Netanyahu che, in luglio, aveva affermato: “l’incitamento all’insubordinazione e l’insubordinazione stessa mettono direttamente in pericolo la sicurezza di tutti i cittadini israeliani, erodono la deterrenza contro i nostri nemici”. Peccato che lo stesso non spiegasse come fosse potuto accadere che migliaia di riservisti inviassero lettere al ministro della Difesa, affermando di non essere disposti a combattere per un governo che definivano “dittatoriale”, specificando di aver scelto di “servire il Regno non il monarca”, e che nei mesi successivi non avesse mostrato resipiscenza. Intanto il quotidiano Haaretz testimoniava in ebraico che stava venendo a mancare “unità e coesione all’interno dell’esercito”, e che aumentava “la frattura tra comandanti e soldati, che non obbediscono più agli ordini”.
Ovvio che la leadership di Hamas abbia utilizzato la situazione per i propri fini: il risultato è sotto gli occhi inorriditi del mondo.

Pur non essendo arrivate ai livelli espliciti descritti per Israele, fenditure profonde si sono aperte negli ultimi tempi anche in altre società democratiche. Il caso degli Stati Uniti è il più eloquente, con toni nel discorso politico pubblico da conflitto fra nemici, ben oltre il legittimo scontro tra avversari con idee e progetti di società diversi. L’attacco del 6 gennaio 2021 al Capitol Building evidenzia quella sorta di guerra civile strisciante, nella quale è stata trasformata la politica da chi si riconosce in Trump. Lo scontro al Congresso sugli aiuti all’Ucraina non è da meno, visto che elimina la capacità statunitense di fare politica estera e di difesa su una questione strategica che riguarda la sicurezza degli alleati, in base a un accordo fair e condiviso.
Qualcosa di simile lo si ritrova in Europa, non solo nell’uso che la Russia fa delle minoranze russofone in Ucraina, Georgia, Baltici, Moldova per attizzare lo scontro civile, ma nell’avversione ungherese per principi basilari della democrazia liberale e l’acquis communautaire UE.
Un risultato delle elezioni europee di giugno che corroborasse fortemente il gruppo “Identità e Democrazia” (contenente, tra gli altri, l’italiana Lega, il francese Rassemblement national, la tedesca Alternative), porrebbe le condizioni per alzare lo scontro sociale e politico.
L’azione politica radicale e divisiva, caratteristica del populismo, ha già creato, lo scorso decennio, le condizioni per un conflitto civile strisciante vocato a indebolire la coesione collettiva nelle società democratiche, quindi la risposta a un eventuale attacco dall’esterno. Hanno contribuito analisi fondate su falsità, notizie fasulle, propaganda tesa all’odio per l’avversario.
Dopo Canne (216 a. C.), a Roma circolò l’avvertimento a non disunirsi, perché all’improvviso poteva comparire “Annibale alle porte”. Tra le differenze rilevabili tra società democratiche e non, vi è che le prime, diversamente dalle seconde, devono sempre salvaguardare il pluralismo delle ideologie e degli interessi. Ma questa garanzia deve essere capace di proteggere dal rischio della frattura del corpo sociale e politico, altrimenti indebolisce le società democratiche nel confronto con quelle dispotiche che negano alla radice il dissenso. Se – come si legge ogni giorno – si rischia l’offensiva delle monocrazie contro le democrazie, queste non possono consentirsi di essere indebolite dalla guerra civile politica. Pagherebbero caro, come sta capitando ad Israele.