Nella Striscia di Gaza la fame uccide, e chi cerca di portare o ricevere cibo rischia di morire sotto il fuoco. Convogli umanitari vengono presi di mira, folle disperate colpite mentre aspettano farina, ospedali restano senza rifornimenti, e gli ordini di evacuazione stringono milioni di persone in un fazzoletto di territorio. Lo scenario che emerge dagli ultimi briefing alle Nazioni Unite è quello di un sistema umanitario “ostacolato, indebolito e messo in pericolo”, ha dichiarato oggi a New York il portavoce del Segretario Generale, Stéphane Dujarric.
Domenica scorsa, un convoglio del Programma Alimentare Mondiale (WFP) che trasportava cibo da Israele verso Gaza è stato circondato da grandi folle di civili affamati ed è stato, secondo l’agenzia, “raggiunto dal fuoco di carri armati israeliani, cecchini e altre armi”, con “innumerevoli vite” perdute. Il Ministero della Salute di Gaza ha parlato di decine di morti, mentre un fotografo dell’Associated Press ha contato 51 corpi in due ospedali. L’esercito israeliano ha dichiarato di aver sparato colpi di avvertimento per “rimuovere una minaccia immediata” e ha contestato il bilancio delle vittime.
Ma l’episodio non è isolato. Centinaia di palestinesi sarebbero stati uccisi nelle ultime settimane mentre tentavano di raggiungere punti di distribuzione alimentare, sia gestiti dall’ONU sia da canali paralleli sostenuti da Israele, secondo dati citati da operatori umanitari e diplomazie occidentali. “I civili devono essere protetti, rispettati e non devono mai essere presi di mira”, ha ribadito Dujarric, riportando lo sdegno del Segretario Generale António Guterres per le “uccisioni e il ferimento di persone che cercano di procurarsi cibo per le proprie famiglie”. Il capo dell’ONU ha condannato con fermezza la violenza in corso e ha ricordato che Israele ha l’obbligo di “consentire e agevolare con tutti i mezzi a sua disposizione gli aiuti umanitari forniti dalle Nazioni Unite e da altre organizzazioni”.
Nel fine settimana, l’esercito israeliano ha emesso un nuovo ordine di evacuazione che taglia la città di Deir al-Balah da est a ovest fino al Mediterraneo, interessando tra le 50.000 e le 80.000 persone. L’area comprende 57 siti di sfollati, strutture sanitarie primarie e l’impianto di desalinizzazione che fornisce acqua a centinaia di migliaia di sfollati a Al Mawasi. La perdita di quell’impianto, ha avvertito l’ONU, sarebbe catastrofica. Nonostante l’ordine di evacuazione, il personale delle Nazioni Unite rimane a Deir al-Balah. Due guesthouse dell’ONU sono state danneggiate da schegge durante i bombardamenti, ma lo staff — sia internazionale che palestinese con le proprie famiglie — continua a operare dal proprio hub logistico.
L’Ufficio ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) stima che circa l’88% della Striscia sia ora soggetto a ordini di sfollamento o si trovi in zone militarizzate israeliane. Questo significa che oltre 2,1 milioni di persone — praticamente tutta la popolazione di Gaza — sono compresse in aree frammentate dove i servizi essenziali sono crollati. Quasi 1,35 milioni necessitano di rifugi e beni di prima necessità, ma da oltre quattro mesi non entra materiale per tende o ripari. Anche l’accesso all’acqua è precipitato: a giugno si stimava che il 93% delle famiglie non avesse più forniture idriche regolari.
La malnutrizione si aggrava di ora in ora. Il Ministero della Salute locale ha segnalato più di una dozzina di morti legate alla fame, inclusi bambini, in sole 24 ore. I prezzi del cibo sono alle stelle, mentre i convogli restano bloccati ai valichi, come confermano agenzie ONU e fonti umanitarie. Le forze israeliane hanno intensificato le operazioni terrestri e aeree anche dentro parti di Deir al-Balah che finora erano state risparmiate da assalti su larga scala. La pressione internazionale è aumentata, così come la richiesta di chiarimenti da parte delle famiglie degli ostaggi, che temono per la sorte dei propri cari, presumibilmente trattenuti nell’area.
“Un terzo della popolazione non mangia per giorni consecutivi”, ha denunciato lunedì Ross Smith, direttore della preparazione alle emergenze del Programma Alimentare Mondiale (WFP), parlando ai giornalisti da Roma. Nel suo briefing da remoto alle Nazioni Unite, Smith ha descritto come “una delle più grandi tragedie” per il WFP l’episodio di domenica, quando decine di civili sono stati uccisi e feriti mentre aspettavano cibo all’ingresso di un convoglio umanitario nel nord di Gaza. “È stato completamente evitabile ed è una tragedia assoluta”, ha detto.
La situazione è drammatica: un quarto della popolazione vive condizioni simili alla carestia, secondo le stime del WFP. Quasi 100.000 donne e bambini soffrono di malnutrizione acuta grave e hanno bisogno urgente di cure. “Le persone muoiono ogni giorno per la mancanza di aiuti umanitari, e vediamo questa situazione peggiorare giorno dopo giorno”, ha aggiunto Smith.
Il WFP chiede condizioni minime per poter operare: attraversamenti sicuri, almeno 100 camion al giorno, assenza di attori armati vicino ai punti di distribuzione. “Abbiamo accordi di principio, ma nessuna reale adesione sul campo”, ha detto. Infine, Smith ha invocato con forza un cessate il fuoco: “Solo così possiamo davvero muoverci. Abbiamo scorte per due mesi fuori Gaza, ma senza un cessate il fuoco non possiamo fare nulla”.
Una dura dichiarazione congiunta promossa dal Foreign Office britannico e firmata da 25 Paesi — tra cui Italia, Francia, Canada, Giappone e altri partner transatlantici e indo-pacifici — ha denunciato come la sofferenza dei civili a Gaza abbia raggiunto “livelli mai visti prima”. Il modello di distribuzione degli aiuti israeliano viene definito “pericoloso”, si parla di “distribuzione a goccia” e si condannano le “uccisioni disumane di civili” in cerca di acqua e cibo. I firmatari chiedono che “la guerra… finisca ora”. Anche il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani ha confermato la presenza di personale italiano dell’ONU nell’area colpita, ha chiesto “con forza” la cessazione immediata degli attacchi e ha avvertito che si sta sparando “in un luogo dove non si dovrebbe sparare”.
Durante il briefing del 21 luglio, abbiamo chiesto al portavoce Dujarric se, nel momento in cui i rapporti tra l’ONU e il governo Netanyahu toccano un minimo storico, l’unica vera leva diplomatica resti quella statunitense, proprio mentre gli Stati Uniti non hanno da mesi un ambasciatore accreditato al Palazzo di Vetro. Il portavoce ha declinato ogni analisi, dicendo: “Lascerò tutta quell’analisi a voi”, ma ha insistito che il Segretariato mantiene “contatti molto regolari con le autorità israeliane a Gerusalemme e Tel Aviv” e continua a sollecitare tutti i Paesi con influenza a usarla per fermare la guerra.
La risposta fotografa un limite strutturale dell’ONU: senza un sostegno attivo di Washington e con un Consiglio di Sicurezza paralizzato, le pressioni del Segretario Generale restano moralmente potenti ma politicamente leggere.
Intanto, sul terreno, la vita quotidiana scivola oltre la soglia dell’umano. Storie raccolte da operatori ONU raccontano famiglie costrette a spostarsi decine di volte, cucine ridotte a un angolo di macerie, bambini senza pane da giorni, madri collassate per la fame. La guerra ha compresso oltre due milioni di persone in appena il 15% della Striscia; la prospettiva, avvertono le organizzazioni internazionali, è quella di “conseguenze catastrofiche” a breve termine sulla salute fisica e mentale di un’intera generazione.