Carl Skau, vicedirettore esecutivo del World Food Programme, è tornato da Gaza per la quarta volta e ha raccontato ai giornalisti quello che tutti – dentro e fuori l’ONU – dovrebbero ormai sapere: “la situazione umanitaria è peggiore che mai”, e “la nostra capacità di aiutare non è mai stata così limitata”. Parole nette, dati spaventosi. Ma qualcosa mancava nel suo briefing: l’indignazione. O almeno un accenno di umana vergogna.
Come si può parlare di 90.000 bambini malnutriti e di genitori costretti a far smettere di giocare i propri figli per farli sopravvivere con meno calorie, e farlo con la voce ferma e diplomatica di un burocrate abituato all’emergenza come routine? Forse è proprio questo il dramma nella comunicazione dell’ONU oggi: la tragedia di Gaza rischia di diventare una questione logistica, una tabella excel da aggiornare. Ma a Gaza si muore. Ogni giorno. Di fame.
Skau ha descritto una realtà da incubo: “una persona su tre a Gaza resta giorni senza mangiare”, ha detto. Il prezzo della farina ha superato i 25 dollari al chilo, e in alcune aree le persone muoiono semplicemente nel tentativo di procurarsi del cibo. Eppure, al Palazzo di Vetro le parole sembrano scivolare senza lasciare tracce emotive. Sì, c’è stato un richiamo alla necessità urgente di un cessate il fuoco. Ma nessuna parola sull’immoralità di quanto sta accadendo. Nessuna condanna vera e propria, nessun appello alla coscienza dell’opinione pubblica mondiale. Solo constatazioni.
Skau ha spiegato che l’intera popolazione della Striscia è acutamente insicura dal punto di vista alimentare. Oltre mezzo milione di persone è sull’orlo della carestia, e molti sono già oltre quel limite. I bambini ricevono solo zuppe calde con pochi lenticchie o pezzi di pasta. Le madri che ha incontrato cercano di distrarre i figli per evitare che sprechino energia giocando. Eppure, anche questo viene riportato come se fosse parte di un rapporto annuale.
Il funzionario ha raccontato delle difficoltà crescenti nel far arrivare gli aiuti: “operiamo in un ambiente impossibile”, ha detto, con l’85% del territorio coinvolto da operazioni militari attive. I convogli restano bloccati anche 20 ore in attesa di autorizzazioni. Mancano carburante, pezzi di ricambio. E ancora una volta, il tono era quello di chi parla di una crisi logistico-operativa, non umanitaria.
Certo, Skau ha anche riferito di negoziati in corso con le autorità israeliane. “Ci sono stati impegni presi per migliorare la situazione”, ha detto, ma con un’onestà che va riconosciuta ha ammesso: “Finora non abbiamo visto abbastanza progressi”. Venerdì, per la prima volta dopo giorni, alcuni aiuti sono riusciti a entrare da nord, ma è solo una goccia nel deserto.

Durante il cessate il fuoco di febbraio, il WFP era riuscito a far entrare 8.000 camion di aiuti, aprire 25 panifici e distribuire pasti a 1,5 milioni di persone. “Siamo pronti a rifarlo”, ha detto Skau, “abbiamo abbastanza cibo alle frontiere per due mesi”. Ma senza un cessate il fuoco vero e sostenibile, quelle scorte resteranno ferme.
Quando all’ultima domanda concessa, ho chiesto al diplomatico svedese come si inserisse, tra le propagande contrapposte di Israele e Hamas, e quale fosse il suo giudizio sul rapporto dell’esperta ONU Francesca Albanese — documento che sta suscitando reazioni infuocate, accuse di antisemitismo e insieme appelli per una sua difesa — Carl Skau ha risposto con tono pacato ma distaccato. Ha spiegato di essere stato “molto concentrato sul terreno”, con missioni operative nella Striscia, e di non aver avuto il tempo di seguire “quella polemica”. Una risposta comprensibile sul piano personale, forse, ma sorprendente se pronunciata da un alto dirigente del WFP, proprio nei giorni in cui l’ONU è sotto attacco per il suo ruolo e le sue voci più critiche. Possibile che chi è testimone diretto della fame a Gaza non senta il bisogno di intervenire nel dibattito più delicato sul diritto internazionale e sulla protezione dei civili palestinesi? Anche questo silenzio è una scelta.
Nessuna delle dichiarazioni di Skau era barcollante. Anzi, il suo resoconto è stato preciso, dettagliato, molto utile per il lavoro dei giornalisti in cerca di fatti verificabili. Ma è proprio questo il problema: la precisione non basta quando si è davanti all’annientamento di un popolo affamato. Quando i diritti umani vengono calpestati così apertamente, serve anche un linguaggio che sappia gridare allo scandalo. Perché se nemmeno i funzionari dell’ONU trovano il coraggio di chiamare questa situazione per quello che è – una vergogna internazionale e un crimine contro l’umanità – allora chi lo farà?