Sono passati trent’anni dal luglio 1995, eppure il nome Srebrenica continua a bruciare come marchio d’infamia sulla coscienza dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Martedì, nell’aula dell’Assemblea Generale, le madri dei ragazzi massacrati hanno portato la loro assenza e la loro rabbia nell’emiciclo dei grandi discorsi. “Ho sopravvissuto a un genocidio e il mondo guardava in silenzio”, ha denunciato Munira Subašić, presidente delle “Madri di Srebrenica e Žepa”: ventidue membri della sua famiglia – compreso il figlio – furono annientati mentre i caschi blu olandesi, mal armati e ancor peggio comandati, alzavano bandiera bianca di fronte all’avanzata serbo-bosniaca. Oltre 8.000 uomini e ragazzi musulmani bosniaci massacrati sotto il naso — e la bandiera — delle stesse Nazioni Unite che lasciavano avanzare le forze serbo-bosniache di Ratko Mladić.
Srebrenica era stata proclamata “zona protetta” dal Consiglio di Sicurezza; avrebbe dovuto essere il rifugio per civili inermi. Invece, in tre giorni, stupri di massa, deportazioni e fucilazioni di fila nei boschi segnarono la più grande mattanza europea dopo Auschwitz. Le fosse comuni — oltre 90, molte ancora da scavare tutt’oggi — valsero alle corti dell’Aia la qualifica di genocidio.
Per l’anniversario, il Segretario Generale António Guterres, che si trovava in Brasile per il vertice dei BRICS, ha affidato a Courtenay Rattray un messaggio netto: “Trent’anni fa le Nazioni Unite e il mondo fallirono. Non fu un incidente della storia, ma il prodotto di politiche, propaganda e indifferenza internazionale”. Guterres ha lodato il coraggio delle Madri di Srebrenica, decisive per le sentenze che hanno individualizzato la colpa: “Il crimine di genocidio non ricade su un popolo intero ma su chi lo pianifica e lo esegue. Gli Stati, però, hanno l’obbligo di prevenirlo”.
Il Segretario ha poi lanciato un allarme attualissimo: “Vediamo di nuovo l’ascesa del discorso d’odio, la glorificazione dei criminali di guerra e le stesse correnti pericolose che portarono alle atrocità. Non possiamo ignorare questi segnali”. È un monito che investe i Balcani ma risuona anche in Gaza, Sudan, Ucraina e oltre.

Philémon Yang, presidente dell’Assemblea, ha ricordato come in Bosnia persista la negazione della strage e la celebrazione dei colpevoli: “L’educazione è la nostra difesa più forte contro l’erosione della memoria”. Ma se la memoria non diventa antidoto politico, resta celebrazione rituale.
Mirela Osmanović, nata dopo la guerra e oggi curatrice al Memoriale di Srebrenica, ha raccontato la sua famiglia spezzata: due fratelli mai tornati, ossa sparse in fosse ancora da localizzare. “Ci promisero “mai più”, e invece la giustizia arriva tardi o resta solo su carta. Una pace senza dignità non è pace”.
Srebrenica è la prova di cosa accade quando l’ONU manca il suo compito primario: proteggere i civili. Dopo il 1995, a New York si è imparato a pronunciare la parola genocidio; molto meno a prevenirlo. Le missioni di peacekeeping restano sotto-finanziate, le regole d’ingaggio limitate, i veti incrociati paralizzanti. Finché non verrà rafforzato il “pillar” della prevenzione – analisi precoce, diplomazia di crisi, giurisdizione internazionale rapida – il Palazzo di Vetro continuerà a produrre condoglianze più che soluzioni.
Il Tribunale per l’ex Iugoslavia e la Corte Internazionale hanno stabilito fatti e responsabilità: genocidio, crimine massimo. Ma in Republika Srpska si erigono murales all’eroe Mladić, e a Sarajevo le vittime vedono il negazionismo allungare l’ombra sulle loro tombe. Guterres chiede agli Stati di “confrontare la negazione con la verità e l’impunità con la giustizia”, citando la Convenzione del 1948 che obbliga a prevenire e punire chi progetta lo sterminio di un gruppo.
Munira Subašić ha concluso il suo intervento con una frase che gela l’aula: “Quando uccidi il figlio di una madre, uccidi una parte di lei”. Quella parte mancante delle madri di Srebrenica è oggi un atto d’accusa verso ogni governo che, ieri come oggi, puntella i propri interessi con il silenzio.
Trent’anni dopo, Srebrenica resta un test di credibilità per l’ONU e per le democrazie che dicono di credere ai diritti umani. Se la memoria sarà soltanto analgesico, il “mai più” appassirà una volta ancora. Se invece diventerà vaccino — formazione, prevenzione, reazione rapida — potrà forse evitare la prossima Srebrenica.