Settecento giorni dopo la sua nomina, Francesca Albanese si è presentata davanti al Consiglio ONU per i Diritti Umani con il rapporto più incendiario della sua carriera: “Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio”. Un dossier di 38 pagine in cui la giurista italiana sostiene che “il genocidio di Gaza continua perché è redditizio per molti”, elencando 48 multinazionali – da Lockheed Martin a Leonardo, da Alphabet a Microsoft – accusate di alimentare e trarre profitto dall’offensiva israeliana nei Territori Palestinesi.
Nella conferenza stampa seguita alla presentazione, Albanese ha dipinto “la Palestina come una scena del crimine con le nostre impronte sopra”. Numeri alla mano, ha ricordato che “in venti mesi, mentre l’esercito israeliano devastava Gaza, la Borsa di Tel Aviv è salita del 213 %, generando 220 miliardi di dollari di capitalizzazione, 67 solo nell’ultimo mese”. Poi l’affondo: “Se 60 000 morti non bastano a fermare le forniture di armi, significa che per qualcuno il massacro è business”.
L’esperta dell’ONU ha chiesto un embargo totale sulle armi e la sospensione degli accordi commerciali con Israele, definendo “illusoria” la distinzione fra economia israeliana “dentro” e “fuori” la Linea Verde: “L’acqua, l’elettricità, le reti digitali: tutto è un’unica infrastruttura che lega le colonie allo Stato”.
Durante la conferenza stampa, tanti i momenti in cui l’esperta di diritti umani delle Nazioni Unite, alle domande pungenti ha ribattuto senza peli sulla lingua. Consumatori responsabili? “Il primo dovere è degli Stati e delle aziende”, ha risposto a chi le chiedeva se boicottare i marchi citati. “Noi votiamo col portafoglio, ma prima di tutto serve la legge”.

Pressioni di Washington per farla rimuovere? “Sì, vivo questa missione con dolore e sacrificio, ma il Consiglio ha confermato che non ho violato il codice di condotta”, ha replicato, citando il tentativo – rivelato da Reuters – dell’amministrazione Trump di ottenere la sua destituzione. “Sono pronta al confronto, non alla censura”.
Israele la definisce “ossessionata e antisemita”: “Nessun commento”, ha tagliato corto, lasciando che le sue tabelle sui profitti bellici parlassero da sole.
Il giorno prima del briefing, la Missione USA all’ONU ha diffuso una nota durissima. Il 1° luglio Washington ha “rinnovato la richiesta” al Segretario Generale Antonio Guterres di prendere le distanze dall’esperta, minacciando “azioni significative” se non verrà rimossa. La Casa Bianca accusa Albanese di “antisemitismo virulento” e di “campagna di guerra economica contro l’economia mondiale”. Toni pressoché identici a quelli usati dall’amministrazione Biden nel 2024, quando la relatrice parlò di “apartheid” israeliana: segno che, sul dossier palestinese, la continuità bipartisan statunitense è granitica.
Israele, tramite la sua missione a Ginevra, ha bollato il report come “legalmente infondato, diffamatorio e abuso di mandato”, accusando Albanese di voler “delegittimare l’esistenza stessa di Israele”. Il governo Netanyahu insiste che l’operazione a Gaza è “difesa contro il terrorismo di Hamas”, respinge l’etichetta di genocidio e accusa la relatrice di ignorare i razzi caduti su Israele e il dramma degli ostaggi.
Al di là delle polemiche, è innegabile che la 46enne irpina sia diventata il volto più scomodo per Israele e il più ascoltato dai palestinesi. In aula, una maggioranza di Stati – dall’Africa all’America Latina – le ha tributato un applauso raro nelle procedure ONU, definendola “voce di chi non ha voce”. Nello stesso momento, lobby filo‑israeliane negli USA la dipingevano come “propagandista di Hamas”.
Questo duello verbale riflette una frattura più profonda: da una parte, chi vede nelle sue denunce l’ultima occasione per frenare insediamenti, demolizioni e blocco di Gaza; dall’altra, chi ritiene i suoi report “ideologici”, temendo che oscurino le responsabilità di Hamas e alimentino l’ondata di antisemitismo globale.
Nel rapporto figurano 48 entità: produttori di armi (Lockheed, Boeing, Leonardo), giganti tech (Alphabet, Amazon, Microsoft), banche, assicurazioni, fino a piattaforme di booking online. Albanese sostiene di aver scritto a tutte; solo 18 avrebbero risposto, «e pochi in buona fede». Nessuna per ora ha annunciato disinvestimenti, anche se il tema è già arrivato nei parlamenti di Norvegia e Spagna, dove si valuta il ritiro dei fondi pensione da società collegate agli insediamenti.
Giuridicamente, stabilire l’intento genocida spetta ai tribunali. Ma la relatrice ricorda che la Corte Internazionale di Giustizia ha riconosciuto “il rischio plausibile” di genocidio a gennaio 2024, vincolando gli Stati a prevenire ulteriori crimini. Per Israele e Stati Uniti, invece, si tratta di un conflitto “asimmetrico ma legittimo” contro Hamas. La distanza semantica è abissale, e qui si gioca gran parte del confronto diplomatico.
Il Consiglio dei diritti umani dell’Onu valuterà il rapporto nei prossimi mesi, ma la resa dei conti è già politica: se Washington spingerà davvero per la rimozione di Albanese, i Paesi del cosiddetto “Sud globale” potrebbero reagire difendendone il mandato, trasformando il caso in un referendum sulla credibilità stessa del sistema dei Rapporteurs. Nel frattempo, Gaza resta “una trappola mortale”, come l’ha definita Albanese; e il West Bank, ha avvertito, “non vive affatto un tempo di pace”.
Che la si ami o la si detesti, la relatrice italiana resta oggi la “spina nel fianco” nel panorama ONU per chi difende lo status quo; una voce che, nel bene e nel male, costringe il Palazzo di Vetro a guardare dentro la presunta “economia del genocidio” e a chiedersi chi davvero ne trae profitto.