Lunedì 1 luglio l’Assemblea Generale ha approvato un bilancio di 5,38 miliardi di dollari per le operazioni di peacekeeping del periodo 2025-2026, confermando 12 missioni attive e i centri logistici di Entebbe e Brindisi. Il pacchetto è passato senza voto, salvo che per l’UNIFIL in Libano – adottato con 147 voti favorevoli, 3 contrari (Argentina, Israele, Stati Uniti) e 1 astensione – dopo il rigetto di un emendamento israeliano.
Il nuovo stanziamento è leggermente inferiore ai 5,59 miliardi dell’esercizio precedente, complice la liquidazione finale delle missioni in Costa d’Avorio e Liberia. Pur con la riduzione, restano coperti i teatri più delicati: MONUSCO (R.D. Congo), MINUSCA (Centrafrica), UNFICYP (Cipro) e UNIFIL, oltre ai programmi di sostegno al disarmo, alla protezione dei civili e allo stato di diritto.
La flessione di poche centinaia di milioni, tuttavia, non riflette la pressione reale sulle casse dell’ONU. La proposta di bilancio della Casa Bianca per l’anno fiscale 2026 taglia integralmente la voce “Peacekeeping Missions”, sottraendo 1,6 miliardi di dollari e aggravando gli arretrati statunitensi – già il principale contributore con il 26,15 % delle valutazioni – mentre la quota di Pechino è salita al 23,78 %.
“No money, no implementation”, ha avvertito il Controller dell’ONU Chandramouli Ramanathan in Quinta Commissione, spiegando che le missioni ricevono spesso istruzioni immediate di riduzione della spesa del 10-20 % per carenza di liquidità. Senza un flusso di cassa stabile, ha insistito, perfino un bilancio formalmente approvato rischia di restare sulla carta.
Il paradosso è evidente: se da un lato gli Stati membri riaffermano l’importanza del peacekeeping – con quasi 70 000 tra militari, poliziotti e civili dispiegati in tre continenti – dall’altro alcuni dei maggiori finanziatori riducono o tardano i versamenti, mettendo a repentaglio la stabilizzazione di aree chiave e la sicurezza stessa dei Caschi Blu. Per Washington, la retorica sullo “spreco” delle operazioni ONU si traduce in un vuoto che altri, Cina in testa, sono pronti a colmare sul piano politico e finanziario.
Guardando avanti, le Nazioni Unite cercano di diversificare le fonti: aumento dei contributi volontari da Paesi emergenti, partenariati pubblico-privato per la tecnologia (droni, intelligenza artificiale applicata alla protezione dei civili), e un possibile “meccanismo ponte” per anticipare liquidità quando le rate statutarie non arrivano. Al contempo, la Segreteria sta spingendo per missioni “più leggere”, capaci di integrare mediazione politica, supporto allo sviluppo e early-warning digitale, riducendo l’impronta militare dove possibile.
Il voto unanime (con l’eccezione del caso libanese) dimostra che l’Assemblea conserva la volontà politica di sostenere lo strumento di peacekeeping, cardine identitario dell’ONU dal 1948. Ma la sopravvivenza di questo pilastro multilateralista dipenderà non solo da bilanci approvati, bensì da trasferimenti reali e tempestivi: senza risorse certe, perfino la migliore dottrina di protezione dei civili rischia di restare lettera morta.
In un’epoca di crisi multiple – dal conflitto Israele-Gaza e Israele-Iran alla violenza in Sudan e Ucraina – il messaggio che emerge da New York è chiaro: l’ONU intende andare avanti, con o senza gli assegni di Washington. Ma se la Casa Bianca dovesse perseverare nei tagli, il costo politico potrebbe essere un vuoto strategico che altri attori riempiranno, ridefinendo gli equilibri di sicurezza globali. Per l’America di Trump il rischio non è solo di risparmiare su “missioni costose”, ma di cedere spazio, influenza e fiducia nel sistema multilaterale – proprio mentre le crisi richiedono più, non meno, cooperazione.