Martedì il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha di nuovo discusso la situazione in Libia, riaccendendo i riflettori su un paese che, a quasi quindici anni dalla caduta di Gheddafi, resta ingovernabile e segnato da spaccature profonde.
La rappresentante speciale delle Nazioni Unite, Hanna Tetteh, ha descritto Tripoli come “di nuovo a un bivio”, dopo i recenti scontri armati che hanno causato morti, feriti e danni a infrastrutture civili essenziali. Nonostante la tregua del 14 maggio, la quale aveva dato vita a un Comitato di Trattativa sotto gli auspici della UNSMIL, la situazione nella capitale continua a essere “fragile e imprevedibile”.
Peggio ancora, le indagini sui presunti crimini commessi dalle forze statali hanno portato alla scoperta di fosse comuni nell’area di Abu Slim. Secondo l’inviata ONU, i resti carbonizzati e i corpi non identificati nelle fosse e nei locali dell’ex zoo Abu Salim testimoniano la gravità delle violazioni – omicidi extragiudiziali, tortura e sparizioni forzate – attribuite alla Stability Support Apparatus.
Davanti a queste testimonianze, la comunità internazionale non è rimasta in silenzio. Un poderoso invito alla rinnovata azione politica e diplomatica è arrivato non solo da Tetteh, ma anche da una dichiarazione congiunta tra paesi come Guyana (Presidente di turno del Consiglio), Francia, Grecia, Regno Unito, Slovenia, Sierra Leone, Corea del Sud e Panama. L’appello, veicolato anche attraverso uno stake out con i giornalisti, ha esortato a considerare la sicurezza climatica come parte integrante della stabilizzazione libica .
In particolare, tale dichiarazione ha sottolineato come la crisi climatica — siccità, inondazioni, eventi meteorologici estremi, mancanza cronica d’acqua — aggravi le tensioni esistenti, accentuando la marginalizzazione delle comunità e complicando la governance già debol .
Durante il dibattito, la Francia (rappresentata da Elisabeth Meyer) ha messo in risalto tre punti chiave: la necessità di rispettare la tregua recentemente stipulata; l’urgenza di rilanciare il processo politico con tempi certi ed elezioni; e la necessità di riformare settori cruciali, dal governo all’economia, fino al complesso militare e di sicurezza, inginocchiati da milizie e corruzione.
Le raccomandazioni della Francia coincidono con quelle avanzate già il 20 giugno a Berlino, dove era stato approvato un piano orientativo per una transizione ordinata e partecipata. In quella sede si chiedeva di consolidare l’unificazione delle forze armate, disarmare e reintegrare milizie, e avviare il ritiro delle mercenarie e delle forze straniere presenti sul territorio libico.
Nel dibattito tra i Quindici, è emerso un consenso trasversale: la Libia non può più restare un paese dove si combatte e si amministra a colpi di milizia. Serve, al contrario, un governo unificato, democratico e legittimato da elezioni trasparenti; un sistema economico responsabile; e una sicurezza consolidata attraverso regole di Stato e non di fazione.
Tuttavia, le parole rischiano di restare carta straccia se prive di impegni concreti. Non basta evocare l’impegno multilaterale e la diplomazia “dal basso”, come invitato dalla dichiarazione congiunta sul clima e la pace. Bisogna tradurli in fatti: fondi realmente destinati alla UNSMIL, monitoraggio internazionale verificabile, un cronoprogramma chiaro per la riforma militare e la convocazione di fasi elettorali credibili.
Alla fine, la riunione di martedì ha mostrato ancora una volta che la Libia resta un teatro in convulsa trasformazione, dove fragilità politica, crimini irrisolti e devastazioni ambientali rischiano di spingere il paese nordafricano verso una nuova spirale di conflitto. Senza una risposta concreta da parte del Consiglio di Sicurezza – non solo retorica – il rischio è che il “processo di transizione” si riveli come un’illusione prima della tempesta.