Gaza, maggio 2025. L’enclave palestinese vive il momento più catastrofico dall’inizio della guerra. A dichiararlo sono le Nazioni Unite, che da giorni lanciano l’allarme su una crisi umanitaria fuori controllo: carestia imminente, ospedali evacuati sotto i bombardamenti, convogli umanitari bloccati o assaltati, e una popolazione intera ridotta alla fame.
Secondo l’Ufficio ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA), “Gaza è il posto più affamato del mondo”. L’intera popolazione, oltre due milioni di persone, è ormai investita dalla carestia. E nonostante la riapertura parziale del valico di Kerem Shalom, gli aiuti non arrivano con la necessaria continuità: su circa 900 camion approvati da Israele, meno di 600 sono stati scaricati. Solo cinque camion, ha riferito il portavoce dell’ONU Stephane Dujarric, sono riusciti a entrare ieri, mentre altri sessanta sono dovuti tornare indietro a causa dei combattimenti nella zona.
Il caos sul terreno peggiora la situazione. La distribuzione degli aiuti è ostacolata da percorsi insicuri e dalla presenza di gruppi armati. Il 30 maggio, uomini armati hanno assaltato un ospedale da campo a Deir al Balah, rubando forniture mediche e alimentari destinate a bambini malnutriti. Lo stesso giorno, il magazzino del Programma Alimentare Mondiale a Deir al Balah è stato preso d’assalto da civili disperati. Per OCHA, il sistema attuale equivale a “un’operazione umanitaria tra le più ostacolate della storia recente”.
Nel nord della Striscia, l’ospedale Al Awda è stato evacuato dopo attacchi ripetuti. A sud, i bombardamenti continuano su Deir al Balah, Al Bureij e il campo di An Nuseirat. Negli ultimi quattordici giorni, sono stati emessi nuovi ordini di evacuazione che coprono circa il 30% del territorio. Secondo l’ONU, quasi 200.000 persone sono state nuovamente sfollate in due settimane.
“Gaza is the hungriest place on Earth.” – @UNOCHA
“The time of words has finished, and now we need to finally see actions.” – @ifrc pic.twitter.com/nkLTCgOh6f
— United Nations Geneva (@UNGeneva) May 30, 2025
Intanto, l’iniziativa alternativa per la distribuzione degli aiuti, sostenuta da Israele e Stati Uniti tramite la Gaza Humanitarian Foundation (GHF), continua a sollevare serie preoccupazioni. Il portavoce di OCHA Jens Laerke ha definito il sistema “non funzionante” e “in violazione del principio di imparzialità”. L’accesso agli aiuti non può dipendere dalla capacità di percorrere chilometri verso centri di distribuzione militarizzati, protetti da contractors statunitensi. Il rischio, secondo Laerke, è che anche chi riesce a ottenere un pacco possa diventare bersaglio di nuovi assalti.
A sostegno di queste critiche, il Comitato per i Diritti del Popolo Palestinese dell’Assemblea Generale ha denunciato il GHF come “un tentativo di aggirare l’ONU e le sue agenzie”. Per il Comitato, le cause del disastro a Gaza non sono logistiche ma politiche: l’assistenza c’è, ma non può entrare.
Nel frattempo, si inaspriscono le tensioni diplomatiche. Israele ha attaccato duramente il presidente francese Emmanuel Macron, accusandolo di guidare “una crociata contro lo Stato ebraico” per aver sostenuto il riconoscimento dello Stato palestinese e aver chiesto sanzioni se Israele non risponderà alla crisi umanitaria. Il ministro israeliano Israel Katz ha replicato che “mentre loro riconoscono la Palestina sulla carta, noi costruiremo lo Stato ebraico sul terreno”.

L’ONU continua a chiedere l’apertura di tutti i valichi, compresi quelli da Egitto e Giordania, e il pieno accesso umanitario. Ma il quadro operativo resta paralizzato. Oltre l’80% della Striscia è sotto ordini di evacuazione o zone militarizzate. “Serve una rimozione immediata degli ostacoli politici”, ha ribadito OCHA. In parallelo, il portavoce Dujarric ha confermato che gli operatori umanitari dell’ONG turca IHH hanno subito nuove perdite: cinque morti e due feriti tra lo staff di cucine comunitarie.
Il Segretario Generale Guterres resta aggiornato sui negoziati in corso per un cessate il fuoco, ma l’ONU non partecipa direttamente ai colloqui mediati da Stati Uniti, Egitto e Qatar. Mentre Donald Trump ha dichiarato che una tregua sarebbe “vicina”, i ministri più radicali del governo israeliano, come Ben Gvir, chiedono l’ingresso definitivo dell’esercito in tutta la Striscia.
Alla luce di oltre 600 giorni di conflitto, il bilancio umanitario è drammatico. E mentre i Paesi europei valutano nuove pressioni diplomatiche, come nel caso della Germania che riconsidera l’invio di armi a Israele, resta la certezza che senza accesso pieno e sicuro per gli aiuti, Gaza è destinata a una catastrofe totale.
Intervento del Gruppo Arabo al Palazzo di Vetro: “Gaza è una tragedia che richiede azione, non solo indignazione”
Venerdì, al termine del briefing del Consiglio di Sicurezza sull’emergenza in Medio Oriente, diversi ambasciatori del Gruppo Arabo hanno preso la parola davanti alla stampa a New York, esprimendo la loro “determinazione collettiva” a porre fine alla guerra in corso a Gaza. Il rappresentante degli Emirati Arabi Uniti, presidente del gruppo per il mese di maggio, ha chiesto al Consiglio di agire immediatamente per fermare il conflitto e revocare tutte le restrizioni umanitarie imposte da Israele.
L’ambasciatore palestinese Majid Bamya ha denunciato un tentativo sistematico di “liquidare la causa palestinese con la forza”, accusando Tel Aviv di utilizzare la fame come arma e rifiutando il nuovo meccanismo di distribuzione degli aiuti sostenuto da USA e Israele. Bamya ha lodato l’azione di Egitto e Qatar per il cessate il fuoco, auspicando che venga attuata integralmente la risoluzione 2735 del Consiglio di Sicurezza.
Tutti i diplomatici hanno sottolineato l’urgenza di riconoscere lo Stato di Palestina, riaffermando il pieno sostegno al piano ONU per la distribuzione degli aiuti e denunciando l’isolamento di Israele rispetto al consenso internazionale sul processo di pace.