Dietro le parole, i comunicati, le indagini che avanzano tra mille ostacoli, la Libia continua ad affondare in una palude di violenza, impunità e instabilità politica. E ancora una volta il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite si è riunito oggi per ascoltare aggiornamenti che, più che segnali di progresso, sembrano rivelare una verità amara: la Libia resta terreno di scontro tra potenze globali e regionali, ma nessuno, almeno per ora, sembra voler prendere in mano il dossier per portarlo a una vera soluzione.
La riunione di oggi era formalmente dedicata all’aggiornamento della Corte Penale Internazionale (CPI) sulle indagini per crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi nel Paese. Dal briefing del Procuratore Karim Khan – collegato in videoconferenza dall’Aja per ragioni di sicurezza dopo le recenti minacce statunitensi alla Corte – sono emerse luci e ombre.

Se da un lato Khan ha parlato di “sei mesi senza precedenti di dinamismo investigativo”, citando l’arresto a gennaio da parte delle autorità italiane di Osama Elmasry Najim, comandante della famigerata forza RADA, dall’altro ha espresso “profonda preoccupazione” per il ritorno in Libia dello stesso Najim, rimpatriato per decisione delle autorità italiane, che hanno giustificato la scelta con ragioni di sicurezza interna e il principio di complementarità previsto dallo Statuto di Roma.
Un gesto che, come ha sottolineato Khan, ha seminato disillusione tra le vittime: “Riportare l’accusato nel teatro dei crimini commessi è stato un colpo devastante per chi sperava nella giustizia internazionale,” ha detto Khan, pur confermando che l’onda d’urto dell’arresto ha scosso i gruppi armati libici, facendo intendere che “lo stato di diritto ha messo piede anche in Libia”.
Khan, senza mezzi termini, ha esortato il governo di Tripoli a “a consegnare ora il signor Njeem per il trasferimento alla Corte Penale Internazionale, affinché possa affrontare un processo per i crimini oggetto del mandato emesso dalla Camera Preliminare. Crimini contro il popolo libico. Colgo in particolare questa occasione, Signor Presidente, per appellarmi al Procuratore Generale della Libia, il signor Al-Siddiq Al-Sour, affinché arresti il signor Njeem e lo consegni alla CPI”.
La frustrazione è evidente anche nel Consiglio, con una dichiarazione congiunta di nove Paesi (vedi video sopra), letta dalla Danimarca e appoggiata da Francia, Regno Unito, Grecia, Guyana, Corea del Sud, Panama, Sierra Leone, Slovenia che hanno ribadito il sostegno alla CPI, condannando ogni minaccia al suo operato e ricordando che senza cooperazione internazionale nessuna giustizia sarà possibile.
Anche l’Italia, che pur non siede attualmente nel Consiglio di Sicurezza, ha chiesto e ottenuto di intervenire in quanto potenza regionale direttamente coinvolta nel dossier libico. L’ambasciatore Maurizio Massari ha ribadito il sostegno convinto di Roma alla Corte Penale Internazionale, ricordando che l’Italia è il quinto contributore al bilancio della CPI e che ha sempre agito in uno “spirito di cooperazione costruttiva” con la Corte, anche nel caso controverso di Osama Elmasry Najim. Massari ha spiegato che l’Italia ha presentato alla Corte una dettagliata memoria giuridica in cui sono stati illustrati i motivi della decisione di rilasciare e rimpatriare Najim in Libia, sottolineando come tali scelte siano state basate non solo su ragioni di sicurezza interna, ma anche sul principio di complementarità previsto dallo Statuto di Roma, che affida in primis alle autorità nazionali il compito di perseguire i crimini. Tuttavia, l’ambasciatore italiano non ha nascosto la profonda preoccupazione per la nuova fiammata di violenza a Tripoli, ribadendo il “fermo impegno italiano per la pace e la stabilità della Libia.” Parole che, pur nella prudenza diplomatica, lasciano intendere quanto Roma continui a considerare la Libia una priorità strategica, anche alla luce dei suoi interessi energetici e della gestione dei flussi migratori.

Ma mentre a New York si attendeva la riunione del Consiglio di Sicurezza sulla giustizia in Libia, a Tripoli esplodeva nuovamente la violenza. Dopo l’uccisione di un potente capo milizia, scontri con armi pesanti hanno devastato interi quartieri della capitale, costringendo centinaia di famiglie alla fuga e mettendo in ginocchio gli ospedali locali. Il Segretario Generale António Guterres ha chiesto “una cessazione immediata e incondizionata delle ostilità”, ma la realtà raccontata sul campo dall’UNSMIL è desolante: “L’unica calma che regna ora è una calma fragile, carica di paura e vendette pronte a esplodere”.
Statement attributable to the Spokesperson for the Secretary-General on Libya
The Secretary-General takes note of the truce reached in Tripoli yesterday and calls on all parties to take urgent steps to sustain and build upon it through dialogue.
The rapid nature of the… pic.twitter.com/dO7bQlFjXq
— UNSMIL (@UNSMILibya) May 15, 2025
È proprio alla fine della riunione del Consiglio che, nei corridoi dell’ONU, abbiamo incontrato un alto funzionario libico – che ha chiesto riservatezza – e gli abbiamo chiesto se la situazione attuale rappresenti un ulteriore passo indietro o un’occasione per rilanciare la stabilizzazione. La sua risposta è stata secca, disarmante: “La Libia si può stabilizzare solo con l’intervento e l’aiuto di una superpotenza”.
Alla nostra replica se intendesse gli Stati Uniti di Donald Trump o anche Cina e Russia, la risposta è stata chiara: “Ovviamente penso agli USA”.
Ma se Trump – che finora non sembra mostrare alcun interesse per la Libia – non dovesse raccogliere l’appello? Resterebbe aperta la porta a un intervento di mediazione da parte di Cina, Russia o Europa? Il diplomatico libico ha sorriso amaramente: “Credo che solo gli Stati Uniti possano esercitare la giusta pressione, sia interna alla Libia che soprattutto sulle potenze regionali coinvolte, affinché collaborino per una stabilizzazione reale.”
Un ragionamento che include, sempre secondo lui, anche l’Italia, la Francia, la Turchia, l’Egitto, il Regno Unito e persino la Russia: “Ma senza una chiara leadership americana, ognuno continuerà a giocare la sua partita degli interessi sulla pelle dei libici”. Il presidente Trump proprio in questi giorni è in Medio Oriente per occuparsi di business ma anche delle crisi e conflitti: forse sarebbe dovuto passare anche da Tripoli? “Forse gli USA si illudono che la situazione in Libia sia attualmente migliore che in altre parti” ha concluso il diplomatico libico, “invece potrebbe molto presto diventare la peggiore di tutte le altre crisi”.
Parole che lasciano aperta la domanda cruciale: chi, oggi, ha davvero interesse a vedere una Libia stabile, unita e governabile? E chi, invece, continua a preferire una Libia frammentata, sfruttata come terreno di scontro per mantenere influenza, spartire risorse energetiche e scaricare migranti?
La risposta, anche dopo la giornata di oggi al Palazzo di Vetro, resta sospesa nell’aria. Con un Paese sull’orlo di una nuova implosione, milizie fuori controllo, e un popolo sempre più stanco di guerre imposte da altri.
Questo articolo è stato aggiornato il 17 maggio con l’aggiunta di un passaggio del discorso del procuratore Karim Khan