Sembrava il preludio a un annuncio strategico. Alla vigilia di un viaggio annunciato da Donald Trump in Medio Oriente, con la promessa di una “very, very big announcement”, il suo nuovo inviato speciale per la regione, Steve Witkoff, ha incontrato mercoledì pomeriggio “a porte chiuse” i quattordici ambasciatori del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Ma la tanto attesa riunione non si è svolta al Palazzo di Vetro. Nessuna convocazione ufficiale, nessun comunicato, nessuna agenda pubblica. Il vertice – fuori protocollo – si è tenuto dall’altra parte della First Avenue, nella sede della Missione degli Stati Uniti.
La giornata era iniziata con un brusio crescente tra i giornalisti accreditati presso l’ONU. Circolava voce che Witkoff, appena insediato formalmente, avrebbe presentato un piano “alternativo” per la consegna di aiuti umanitari a Gaza – un piano israeliano appoggiato da Washington e respinto però dall’ONU perché non conforme ai principi umanitari internazionali, in particolare per il rischio che l’operazione sfuggisse al controllo delle Nazioni Unite. Ma gli israeliani replicano che così gli aiuti non andranno più sotto il controllo di Hamas.
A chi chiedeva conferme, la risposta – tra gli altri – è arrivata dal portavoce della Missione greca guidata dall’ambasciatore Evangelos Sekeris, presidente di turno del Consiglio, con un messaggio di testo ai giornalisti: “Nessun incontro del genere si terrà al Consiglio oggi.” Tecnicamente, aveva ragione. Perché l’incontro non si è tenuto nel Consiglio, ma fuori dal Palazzo di Vetro.

I reporter si sono quindi appostati davanti alla Missione americana. Uno dopo l’altro, i quattordici ambasciatori dei Quindici (gli USA non contano: erano i padroni di casa) sono arrivati con discrezione. Niente dichiarazioni all’ingresso, bocche cucite. A uscire qualche tempo dopo, ancora più silenziosi. Solo due ambasciatori si sono lasciati sfuggire qualche parola: quello di Panama, Eloy Alfaro de Alba – “È stato un incontro informale, interessante, abbiamo parlato di vari temi, non solo di Gaza” – e quello del Pakistan, Asim Iftikhar Ahmad.
Greek envoy heading into USUN mtg on Gaza pic.twitter.com/YxQZA3VuAG
— PassBlue (@pass_blue) May 7, 2025
Proprio l’ambasciatore pakistano è stato l’unico a parlare più liberamente, anche prima della riunione, forse perché attendeva domande sulla crisi tra Pakistan e India, che i giornalisti, puntualmente, hanno posto. Alla domanda se si fidasse di una mediazione del presidente Trump, ha risposto “che tutte sono utili e benvenute in questo momento”. Ma solo più tardi, incontrato all’interno del Palazzo di Vetro, l’ambasciatore pakistano ha spiegato meglio quello che lui pensava del senso della riunione con Witkoff di oggi: “Non c’era un obiettivo preciso – ha ammesso –. L’incontro è servito più che altro a stabilire un primo contatto.” Witkoff, insomma, si è presentato come il nuovo interlocutore americano su tanti conflitti, ma senza presentare un piano concreto. Ha parlato delle crisi in corso – Gaza, Ucraina, Iran – ma senza fornire dettagli o richieste operative. Nessuna roadmap, nessuna proposta scritta, nessun documento distribuito. “Gli ho detto se non avesse già troppe crisi da occuparsi per dover aggiungere anche quella tra Pakistan e India,” ha concluso Iftikhar Ahmad, accennando un sorriso che, per tutta la giornata, appariva tirato e preoccupato.

D’altronde, la riunione sembrava fin dall’inizio più una manovra di posizionamento che una sessione diplomatica formale. Trump non ha ancora ufficialmente un ambasciatore all’ONU (la nomina di Mike Waltz è in attesa di conferma del Congresso), e Witkoff – imprenditore immobiliare vicino all’ex presidente – è oggi tra le voci più autorevoli (e più ascoltate) della politica estera trumpiana, almeno quanto quella del Segretario di Stato Marco Rubio.
Witkoff, tuttavia, non si è mai fatto vedere. Al termine dell’incontro, dopo che i giornalisti erano stati “sviati” da un movimento di limousine che lasciava intendere un’uscita laterale, lui è uscito invece dall’ingresso principale a grandi passi ed è salito su un’altra limousine, ignorando le domande lanciate dai pochi reporter ancora rimasti.
Durante la riunione, è stato notato anche l’ambasciatore israeliano all’ONU, Danny Danon, entrare nella Missione USA. Ma, interrogato all’uscita, ha specificato: “Ho incontrato Witkoff, sì, ma non durante la riunione con gli ambasciatori. Israele non fa parte del Consiglio di Sicurezza”.
Il contesto non poteva essere più drammatico. Infatti, la mattina, al Palazzo di Vetro c’era stato uno stake-out con l’ambasciatore Danon, in cui il diplomatico israeliano aveva cercato di promuovere il piano di consegna di aiuti a Gaza voluto da Israele e appoggiato dagli USA ma respinto dall’ONU.
Poche ore prima, nuove notizie da Gaza avevano scosso i corridoi dell’ONU. Un attacco israeliano aveva colpito una scuola dell’UNRWA ad Al Bureij, dove si rifugiavano 2.000 sfollati. Secondo l’agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi, almeno 30 persone sono state uccise, tra cui donne e bambini. “Non c’è più umanità a Gaza – ha detto l’UNRWA –. Il mondo guarda, e lascia che accada”.
Volker Türk, Alto Commissario per i Diritti Umani, ha denunciato i piani israeliani di confinare la popolazione palestinese in un’area ristretta nel sud della Striscia come una strategia che rischia di rendere “incompatibile la sopravvivenza a Gaza”. Il 95% delle scuole è distrutto. Le famiglie cercano tra le macerie resti dei loro cari. E mentre a New York si parla di “stabilire un contatto”, la comunità internazionale appare sempre più spettatrice impotente.

La riunione con Witkoff, insomma, è sembrata più un segnale politico di Trump verso un’opinione pubblica scossa da quanto accade a Gaza che un passo diplomatico. Un modo per dire “ci siamo anche noi” nel cercare di risolvere la crisi, ma senza dire come. E se davvero Trump intende presentare un “grande annuncio” nei prossimi giorni, i 14 ambasciatori del Consiglio di Sicurezza probabilmente lo aspetteranno con più scetticismo che speranza.
“During this war, I lost my mother and sisters. They were the most precious people I had,” says Naemat, 17, from #Gaza.
She has faced psychological trauma and deep depression following the loss of her family. She has also been wounded and forced to flee multiple times.
As… pic.twitter.com/BJpR9Qpq7A
— UNRWA (@UNRWA) May 7, 2025
Così mentre nelle stanze del potere si parla apparentemente senza ancora avere dei piani, tra le macerie di Gaza il tempo si misura in vite perdute.