L’ennesimo scontro tra striscia di Gaza e stato d’Israele, chiuso il giorno 21 maggio da una tregua, dopo undici giorni di razzi (da Gaza) e bombardamenti aerei (da Israele), ha un bilancio provvisorio di 243 morti palestinesi tra i quali 66 minori, e 12 morti in Israele tra i quali 2 thailandesi e 1 indiano. I feriti sono 1.910 tra i palestinesi e almeno 350 in Israele. Sessantamila gli sfollati palestinesi.
Come sempre accaduto nelle ostilità che Hamās, da Gaza, ha attizzato verso Israele dal 2007 quando la Striscia si è resa autonoma dall’Autorità Palestinese, lo squilibrio militare in campo ha fatto pagare a Gaza un alto prezzo. Il portavoce militare di Gerusalemme ha avuto buon gioco nel rilevare i difetti della macchina bellica nemica: Hamās ha sparato 2.900 razzi, ma 450 sono stati lanciati male o erano difettosi ricadendo nella Striscia, e 1.150 sono stati intercettati dal sistema antimissilistico israeliano Iron Dome. Viene da chiedersi cosa spinga Hamās a condurre azioni armate dalle quali esce battuto.
È probabile che il movimento che guida la Striscia non punti a una vittoria militare che resta impossibile per lo squilibrio in campo di uomini, armi e tecnologia. Usa le armi per allargare ulteriormente l’ascendente politico tra i palestinesi e nel mondo arabo, con l’obiettivo di mettere in difficoltà l’Autorità Palestinese di Abu Mazen e possibilmente soppiantarla. È un progetto che condivide con i gruppi jihadisti penetrati un po’ ovunque nella società mediorientale (e non solo), proponendosi come campione sunnita del no radicale a Israele, così come Hezbollah in Libano e l’Iran lo sono nel campo sciita.
Se questo è l’obiettivo tattico, quello strategico resta la distruzione dello stato di Israele. Ma davvero Hamās può ritenere realistico il progetto di buttare a mare gli ebrei di Israele? È possibile che qualche suo leader immagini che il movimento arrivi all’obiettivo; al tempo stesso è probabile che nella mente politica di molti dirigenti della Striscia si punti a intimidire Israele per costringerla a riconoscere che Hamās ha soppiantato il Fatḥ di Yasser Arafat, ritenuto oggi da moltissimi palestinesi corrotto e addomesticato dagli israeliani. Israele, secondo questi dirigenti, deve avere come interlocutore privilegiato la parte palestinese che alle ultime elezioni ha preso più voti di Fatḥ. Non si è fuori dalla logica perseguita dal movimento estremista né purtroppo dalla realtà, quando si riconosce che le vittime di maggio nella Striscia hanno ulteriormente innalzato Hamās al rango di difensore dell’orgoglio palestinese e, in senso più lato, arabo, rafforzando ancora la sua prospettiva elettorale.

Se così stanno le cose, altre domande cercano risposte. Che ci guadagnano i palestinesi a sostenere Hamās, visto che dove governa, due milioni di persone vivono in una sorta di prigione sigillata a cielo aperto dalla quale non è possibile uscire? La domanda, retorica, ha una sola risposta, che interpella le responsabilità del Fatḥ e dell’Autorità Palestinese di Abu Mazen per non avere, nei quasi 15 anni dal distacco cruento da Hamās, riguadagnato il consenso del popolo.
E Israele cosa guadagna nel lasciare che i palestinesi scivolino verso l’estremismo politico e religioso, dopo averli conquistati, negli anni ‘90, alla moderazione e al dialogo diplomatico? È la politica del divide ed impera, si potrebbe rispondere, richiamando un classico adagio antico romano, ovvero più si dividono i palestinesi meglio gli israeliani controllano i territori nei quali vivono.
Con sufficiente dose di malizia si potrebbe anche aggiungere che più avanzano le posizioni estremiste e radicali nei territori palestinesi, più risaltano le differenze tra sistema politico palestinese (diviso e autoritario) e israeliano (unito e democratico). I governi interessati alla stabilità e alla pace, si può affermare, non faranno mai affidamento sull’avventurismo dei palestinesi in particolare di quelli della Striscia, e si terranno ben stretti i rapporti economici e politici con Israele.
È un meccanismo che ha la sua logica, ma comporta una serie di rischi. L’estremismo politico è leggibile anche come transizione verso una crisi. A sua volta la crisi promette di generare un nuovo, non sempre prevedibile equilibrio. Israele sembra gradire l’attuale equilibrio delle forze, ma con i suoi comportamenti contribuisce al permanere della crisi; quindi a lasciare che si generino le condizioni per un equilibrio successivo che, perpetuando gli attuali comportamenti, non sarà in grado di influenzare e orientare, trovandosi a doverlo subire. Non è una bella prospettiva.
Israele mostra di aver optato per il susseguirsi di microcrisi (come quella di maggio con Gaza), pur di rinviare una delle due opzioni risolutive del problema palestinese, tuttora all’ordine del giorno: due stati o confederazione dentro il meccanismo istituzionale del regno giordano.
Si legge che questa politica più che nell’interesse di Israele si sia configurata, negli ultimi anni, nell’interesse personale di Benjamin Netanyahu, primo ministro cotto da scandali ed eccessi, che per non cedere il potere, avrebbe preferito lo stato di emergenza permanente che lo avrebbe mantenuto in sella evitandogli il confronto definitivo con i magistrati che lo perseguono. Persino Netanyahu, di fronte alle attuali trattative di governo che tendono a sbalzarlo di sella, dovrebbe essersi convinto che le crisi non possono essere tirate all’infinito e che di conseguenza operare per porvi fine è nell’interesse degli uomini politici che si trovano a governare, oltre che degli stati e delle popolazioni.
In quest’ambito il problema più stringente riguarda il destino di Gerusalemme, città santa delle tre religioni abramitiche monoteiste. La questione che a suo tempo, nonostante l’impegno personale e il carisma del presidente Clinton, impedì ad Arafat di concludere l’accordo con Ehud Barak per la costituzione dello stato palestinese con capitale Gerusalemme est, permane irrisolta. Gli stessi scambi di colpi in maggio tra Gaza e Israele, sono nati, in ultima istanza, da un problema gerosolimitano riguardante l’attesa sentenza della Corte Suprema israeliana sull’ordine di sgombero di famiglie palestinesi da Sheikh Jarrah, quartiere di Gerusalemme Est (con i collegati scontri del 6 maggio), e il duro confronto del giorno successivo tra polizia e manifestanti nel complesso della moschea al- Aqṣā sopra al muro del Pianto.
Alla complessa questione di Gerusalemme ha provato ad offrire un’originale via d’uscita un docente di diritto europeo, avvocato del foro di Milano, difensore di tantissime aziende italiane presso la Corte di Giustizia dell’UE, Fausto Capelli, in uno scritto di alcuni anni fa, passato ingiustamente inosservato. Partendo dalla prima comunità europea, quella del carbone e dell’acciaio, il prof. Capelli ha impostato un parallelismo virtuoso e potenzialmente emulatore, tra soluzione europea del conflitto franco tedesco e soluzione mediorientale del conflitto israelo palestinese. Il principio di Jean Monnet di pacificare i rapporti tra Germania e Francia, partendo dall’interesse comune a mettere insieme le industrie mineraria e siderurgica, potrebbe essere applicato in Palestina, in scia con un altro precedente, la pacificazione dell’Irlanda del nord tra cattolici e protestanti realizzata anch’essa grazie al “metodo comunitario”. Questo prevede la soddisfazione degli interessi conflittuali delle parti, riconducendoli a un superiore interesse comune alla pacificazione e allo sviluppo socio-economico da perseguire insieme. Riconoscere interessi e l’identità dell’altro, non nega l’opportunità di garantirne la difesa propria ma chiede di ricercarne l’armonizzazione. Ciò è possibile, ricorda Capelli, solo se, come si fece nella Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, gli accordi raggiunti siano garantiti da istituzioni ad hoc che abbiano scopo limitato e poteri limitati ma siano al tempo stesso indipendenti. Deve inoltre prodursi un risultato economico e sociale quantificabile e misurabile, tale da convincere che esso apporta a tutti e a ciascuno più del precedente sistema conflittuale.

Nello specifico israelo palestinese, per Capelli la priorità sta nel nodo Gerusalemme. Un regime giuridico straordinario dovrebbe consentire un’amministrazione pubblica adeguata ai bisogni di abitanti, ospiti e visitatori, con garanzia di libertà di accesso universale. Il progetto sarebbe avviato solo in base ad accordi raggiunti e firmati dalle parti, e sotto garanzia del controllo internazionale. Istituzioni autonome, in particolare una corte di giustizia che risponda solo agli accordi sottoscritti, suggellerebbe la sostenibilità del progetto, corroborato, nella pratica, dalla collaborazione quotidiana tra economia israeliana e palestinese.
A proposito di questo ultimo aspetto, piace richiamare il contenuto di una missiva fatta circolare dal presidente della Federazione delle Camere di Commercio di Israele, Uriel Lynn nei giorni del conflitto del maggio 2021. Dopo il rammarico per la perdita di vite umane da ambedue le parti, Lynn esprime l’auspicio che “la pace e la prosperità” sostituiscano presto “le indesiderate immagini di guerra”. Dichiara, a seguire, la disponibilità di Israele ad “aiutare a costruire la striscia di Gaza, le sue infrastrutture, le sue imprese, e ogni altra cosa utile al miglioramento della vita della popolazione civile, laddove Hamās si rendesse disponibile a mettere al primo posto il miglioramento della vita della gente che vive nella Striscia”. Lynn elenca quindi le attività che le camere di commercio israeliane portano avanti da anni in collaborazione con l’Autorità Palestinese, per lo sviluppo economico e civile dei territori da questa amministrati. Al netto della propaganda, va rilevata la corrispondenza tra la posizione espressa dalla comunità imprenditoriale israeliana e quella parte del progetto Capelli che guarda agli interessi israelo palestinesi da portare avanti in comune, pur nella distinzione di personalità e ideali. Come, dopo secoli di guerre e distruzioni reciproche, a suo tempo fecero Francia e Germania.
Restano, per chiudere sul progetto Capelli, alcune constatazioni, che evidenziano le diversità strutturali tra situazione israelo palestinese e riferimento storico franco tedesco.
La prima riguarda la disomogeneità nelle e tra le società israeliana e palestinese. Non è solo questione delle diversità di fondo nel sociale e nella cultura politica, ma dell’estrema frammentarietà che ciascuna delle due società manifesta in termini politici culturali e religiosi. Significative le differenze di censo, in particolare nella realtà palestinese. Significativi anche gli estremismi, in ambedue le società, quelli religiosi oltre che politici.
La seconda riguarda lo squilibrio delle forze in campo. Superata la fase immediatamente successiva alla fine della guerra, la repubblica Federale si rese uno stato socialmente ed economicamente alla pari con la Francia. Lo strapotere israeliano rispetto ai palestinesi è così evidente da far immaginare che il progettato “mercato comune mediorientale” potrebbe tradursi in una sorta di colonizzazione economica da parte di Israele.
La terza riguarda il volano economico che dovrebbe dare corpo al progetto. Jean Monnet lo aveva identificato con chiarezza da uomo di finanza qual era: carbone e acciaio, miniere e siderurgia. E per Gerusalemme quale sarebbe il volano? Il turismo religioso? La cultura? L’arte?, o andrebbe anche considerato il retroterra economico almeno fino a Tel Aviv e a Ramallah, rispettivamente per israeliani e palestinesi? Va detto.
Una questione non indifferente riguarda il ruolo del sistema internazionale a sostegno del progetto. Se le alleanze franco tedesche negli anni ‘50, e anche successivamente, sono state comuni, grazie anche al ruolo della Nato, nel caso di israeliani e palestinesi, le cose vanno in modo diverso. L’accordo per Gerusalemme, proposto da Capelli, andrebbe sostenuto da una comunità internazionale, mai però tanto divisa come ora sulla conduzione degli affari internazionali. Potrebbe essere la difficoltà maggiore per la realizzazione del progetto, anche per la proliferazione degli attori stranieri in campo degli ultimi due decenni.
Per ultimo si pone la domanda sul ceto politico che dovrebbe gestire l’accordo. Gli uomini della Ceca, gli Schuman i De Gasperi i Monnet gli Adenauer gli Spaak, erano personaggi altamente rispettati e rispettabili, con ideali e visione. Dire che personaggi del genere siano oggi in circolazione nel cosmo politico israelo palestinese appare incongruo alla realtà. Servono visione, dedizione, moralità e capacità per un progetto complesso come quello proposto. “Dov’è l’uomo?” direbbe Diogene, aggirandosi con il lanternino per Gerusalemme.
Meno preoccupa il fatto che le difficoltà incontrate dalle trattative negli scorsi decenni, non possano essere superate. Vale il mandato di Nelson Mandela: “Se si vuole fare la pace con il nemico, si deve lavorare con il proprio nemico. Esso deve poi diventare il vostro partner”.